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787. Dal Tantra “ai” Tantra di Diego Manzi

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Come noto in occidente imperversa da sempre la tendenza a ridurre, semplificare e, conseguentemente, a trasformarle in religioni “fai-da-te” proposte ad uso e consumo dei più disparati interessi, certe pratiche realizzative di matrice orientale altamente complesse e sofisticate. Un approccio, questo, che non ha risparmiato il Tantrismo. Anzi, potremmo perfino dire che nei confronti dei lignaggi tantrici indiani il riduzionismo occidentale sia stato particolarmente “feroce”. Cerchiamo dunque, senza ovviamente accampare in questa sede nessuna pretesa di esaustività intorno ad un argomento tanto sterminato, di fare chiarezza sulle origini, gli sviluppi e i principi fondamentali delle cosiddette tradizioni tantriche.

Il Tantra
Ciò che stupisce, almeno ad avviso di chi scrive, resta l’approccio di base adottato da almeno un 90% di coloro che in Occidente dicono di occuparsi di questa tradizione (1), troppo spesso a digiuno di sanscrito e sovente mai impegnati in uno studio onesto della letteratura tantrica indiana più genuine: come possiamo dedurre dal titolo del presente articolo, infatti, si sente parlare quasi sempre di Tantra al singolare quando, come vedremo meglio più avanti, ci troviamo di fronte ad una tradizione pressoché sconfinata di correnti, opere letterarie e, soprattutto, di pratiche psicofisiche e rituali ascrivibili a questa mirabile e complessa “via”.

“I” Tantra: origini, sviluppi e struttura dei testi
Va anzitutto evidenziato che le tradizioni tantriche sono fiorite e si sono sviluppate nell’alveo di quella grande “Casa Madre” chiamata Tradizione Eterna (sanatana-dharma), meglio nota in Occidente come Hinduismo (2), la quale ha dato i natali anche ad altre tradizioni quali il Buddhismo, il Janismo, il Sikhismo, etc. Una considerazione, questa, la quale ci mette subito al riparo dalle prime forme di riduzionismo: per studiare i Tantra, in definitiva, occorre contestualizzarli. Non meraviglierà, pertanto, che la tradizione tantrica condivida alcuni concetti di base propriamente hindu, quali ad esempio la ciclicità del tempo (kala-cakra) e la progressiva degradazione dell’ordine cosmico (dharma); la credenza in una legge retributiva assolutamente inderogabile (karman) governante, a sua volta, un ciclo senza inizio né fine di morti e rinascite (samsara), le quali vincolano la parte incorruttibile di ogni individuo (atman) a continue peregrinazioni in forma umana, animale o divina; nonché la fede in una liberazione definitiva (moksa) di questa parte incorruttibile dal ciclo, in definitiva penoso e pieno di sofferenza, di morti e rinascite, che incatena l’uomo da tempi immemorabili. Se l’alba dello Hinduismo, poi, si perde addirittura nella notte dei tempi e, più segnatamente, fra le polveri dei sigilli e delle statuette delle civiltà vallinde; il fenomeno tantrico, ancorché i suoi “germi” siano probabilmente ben più antichi, ha fatto la sua comparsa ufficiale intorno al V secolo della nostra era. Anche se il primo “manifesto” tantrico a noi noto risale alla celebre iscrizione di Gangdhar, datata 324 d.C., la quale ci informa di un tempio delle madri (matr), ove potentissime divinità femminili erano impegnate a lanciare spaventose grida e ad agitare gli oceani per mezzo del vento “scaturito dai Tantra” (tantrodbhuta).
I primi testi tantrici, gran parte dei quali risultano anonimi, scritti in lingua sanscrita e privi di datazione, sono stati composti fra il V e il VII secolo d.C. Come si diceva in apertura, il panorama tantrico è particolarmente eterogeneo sia “quantitativamente”, dato che siamo a conoscenza di una congerie pressoché sterminata di scritti tantrici; sia “qualitativamente”, in considerazione del fatto che il fenomeno tantrico, alla stregua di un vero e proprio fiume carsico attivo in buona parte del subcontinente, ha attraversato e influenzato la maggior parte delle principali correnti devozionali hindu e, più segnatamente, quelle improntate sul culto di Siva, Visnu, Ganesa, Surya, Garuda e, soprattutto, della Devi (senza dimenticare che esistono perfino importantissimi testi tantrici buddhisti e jaina). Ciononostante, all’interno di tali correnti si snodano altri lignaggi più particolari le cui complessità storiche, geografiche e filosofiche sono tali da poter essere soltanto accennate in questa sede (3). Si tenga presente, quasi a complicare ulteriormente il panorama letterario in esame, che spesso “non basta l’abito a fare il monaco”: molti testi chiamati tantra, come ad esempio la celebre raccolta di favole indiana chiamata Pancatantra, non sono affatto tantrici nel loro spirito; viceversa altri testi che non recano il sostantivo tantra, come ad esempio gli Agama saiva e le Samhita vaisnava, vanno ascritti senz’altro alla tradizione tantrica. Senza dimenticare che l’evoluzione del tantrismo, sviluppatosi fino al XIV secolo, ha propiziato anche, specie nel Kasmir, una letteratura filosofica di primissimo ordine, la quale ha potuto fregiarsi di alcuni fra i più brillanti pensatori indiani quali Utpaladeva, Somananda e, soprattutto, Abhinavagupta.
La struttura dei testi tantrici, spesso caratterizzati da una forma dialogica (4), si articola tendenzialmente in quattro sezioni (pada):

1 una parte dottrinale (vidya);
2 una parte legata alle pratiche meditative (yoga);
3 una parte dedicata al rituale (kriya), spesso e volentieri la più rilevante e cospicua;
4 e un’ultima parte dedicata alla condotta da tenersi dal tantrika (carya) (5).

Si tenga presente fin da ora che è il rito l’autentico protagonista di queste quattro sezioni, nonché la “quintessenza del Tantrismo.
Spesso vissuto dal tantrika come una genuina presa di posizione trasgressiva nei confronti delle pratiche rituali “sterilizzate” innervate da sempre  nel tessuto socio-religioso brahmanico; è stato proprio il rituale tantrico, in quella che può essere considerata una triste “ritualizzazione del sesso”, ad aver offerto l’input a quegli occidentali che hanno avuto gioco facile ad interpretare in maniera riduttiva e faziosa queste sofisticate e impegnative pratiche realizzative.

I principi tantrici: un tentativo di ricostruzione

Se è vero che il fenomeno tantrico ci appare oggi come un corpus sterminato di fonti letterarie per niente riducibili ad una definizione chiusa ed esaustiva, sarà necessario cercare di enucleare quei principi che, almeno tendenzialmente, caratterizzano questa “via”e, nel corso dei secoli, sono stati perfino in grado di “tantrizzare” alcune correnti hindu. Prima di passarli in rassegna, tuttavia, occorre spendere qualche parola sul significato del sostantivo tantra, il quale, preso nella sua interezza, significa “trama”, “ordito”, “tessuto”; mentre, se ci riferiamo al solo suffisso tr, si intende uno strumento per l’estensione e, più segnatamente, per l’espansione della coscienza. Senza accampare in questa sede alcuna pretesa di esaustività, passiamo dunque all’analisi di alcuni principi che informano e vivificano tale “trama espansiva”.
Innanzitutto occorre mettere in evidenza i presupposti cosmologici. Secondo la maggior parte delle correnti tantriche, ci troviamo in un’era, denominata kali-yuga, in cui l’ordine cosmico (dharma) risulta corrotto. Pertanto, proprio come chi cade a terra è costretto a risollevarsi facendo leva sulla terra stessa, la salvezza va ricercata proprio a partire da quegli stati cognitivi ed esperienziali che ordinariamente farebbero degradare l’uomo. Proprio come il dio Siva, durante il frullamento dell’oceano di latte, ingoiò il micidiale veleno halahala per poi trasformarlo nel celestiale amrta (il nettare che donò l’immortalità ai deva) (6); il sadhaka, attraverso lo sfruttamento creativo massimo dei poteri della materia, potrà riuscire a ripristinare in quella perduta unità cui tendono pressoché tutte le prospettive tantriche. E i testi sacri che si propongono di individuare questi nuovi e spesso antinomici strumenti realizzativi, i Tantra appunto, si autoproclamano deliberatamente come “culmine esoterico” dell’intera sapienza vedica, la quale non viene soppiantata tout court ma integrata e trascesa da un sapere rivelato più adatto alle mutate esigenze socio-cosmiche.
Il tentativo di ricomporre la “frattura” fra l’immutabile, assoluta, perfetta e incorruttibile realtà di brahman e la realtà caduca, relativa, imperfetta e dolorosa del mondo dei nomi e delle forme. Quest’ultima dimensione, anziché essere considerata come illusoria, fuorviante e degradante come fecero certe correnti vedantiche particolarmente intransigenti; è riabilitata e, a tratti, esaltata come vera e propria “piattaforma di lancio” a partire dalla quale diventa possibile raggiungere il fine ultimo di qualsivoglia pratica realizzativa tantrica: l’unità degli opposti e, in definitiva, l’emulazione del divino.
La “polarizzazione” del divino e, in definitiva, dell’intera realtà, uomo incluso. Secondo la visione tantrica, la dualità fra spirito (purusa) e materia (prakrti), e quindi fra principio maschile statico e principio femminile dinamico, sarebbe soltanto il frutto di una percezione illusoria (maya). Si potrà parlare, al limite, di una “dualità interiore” all’unica, assoluta e totalizzante realtà. Scopo dei percorsi realizzativi tantrici, pertanto, non sarà, come avviene nella filosofia Samkhya e nello Yoga classico, il “divorzio” di queste due componenti: la vibrante e turbinosa materia-danzatrice “congedata” dalle due scuole filosofiche appena ricordate; viene richiamata affinché torni a danzare e a sedurre l’immobile e super-cosciente spettatore, ivi ripristinando insieme a lui quella sacra unione (samayoga) che celebra a passo di “espansione suprema” la realizzazione delle trame tantriche. Lo Yoga tantrico, attraverso l’individuazione di una fisiologia sottile particolarmente complessa, si propone appunto di ripristinare questa unità attraverso l’ascesa e il risveglio della divinità femminile “dormiente” sotto forma di serpente (kundalini) e incastonata fra l’ano e i genitali del praticante (muladhara-cakra). Per mezzo di questi “dinamismi” sottili, poi, saranno possibili le “nozze mistiche” fra questo principio dinamico femminile (sakti) e la divinità maschile (siva) localizzata poco sopra la sommità del capo (sahasrara-cakra) del praticante: “L’individuo che smuove la kundalini-sakti giunge a godere di facoltà paranormali. Che cos’altro dovremmo dire? È per lui un gioco da ragazzi conquistare il dominio sul tempo e sulla morte” (7).
La piena esaltazione dell’elemento femminile. Ogni divinità maschile del pantheon tantrico, infatti, è accompagnata dalla sua paredra, la quale, sovente, riveste un ruolo “decisivo” nell’iconografia e nel culto tantrici.
Se nei Dharma-sastra (8), insomma, la donna è presentata come una creatura pacifica e pressoché sottomessa all’autorità dell’uomo, nei tantra si registra una vera e propria inversione di tendenza: l’eterno femmineo, incarnato in maniera straordinaria nell’archetipo della dea Durga, riacquista virilità, indipendenza ed un’autorità spirituale mai vista prima. Non è un caso che presso alcuni lignaggi tantrici saiva fossero adorate ed evocate proprio quelle divinità terrifiche femminili come Kali, le quali, sovente, sottomettevano lo stesso Siva: Siva, per riportare un noto motto tantrico, senza la sua Sakti è solo un cadavere “Siva sak-tivihinah savah”).
Una certa “trasversalità” realizzativa. La via tantrica, infatti, sintetizza in sé i tre sentieri realizzativi canonici elaborati dal genio indiano: azione rituale, conoscenza e devozione sembrano infatti interscambi arsi creativamente e senza soluzione di continuità durante tutta la sadhana. Ovviamente non possiamo negare che il vero protagonista della via tantrica resti il rituale, il quale, come si diceva, molto spesso assume una presa di posizione trasgressiva nei confronti delle pratiche rituali innervate da sempre sul tessuto socio-religioso brahmanico. Si pensi al ben noto rito dei cinque elementi (panca-tattva), o delle cinque emme (panca-makara), ivi menzionato nel Mahanirvana-Tantra, attraverso il quale l’adepto tantrico si misurava con cinque elementi considerati altamente contaminati dalla tradizione brahmanica: cereali tostati (mudra), pesce (matsya), vino (madya), carne (mamsa) e accoppiamento (maithuna) (9). Tuttavia, se è vero che il panca-makara veniva interpretato alla lettera da parte di certe correnti tantriche, e più segnatamente da quelle settentrionali (vamacara); altre correnti, specie nel sud dell’India (daksinacara), lo hanno inteso in maniera più simbolica e introspettiva.
Non si pensi, specie dopo aver accennato al rituale tantrico, che questa via rappresentasse sic et simpliciter una mera “scorciatoia” per uomini dissoluti, depravati e lussuriosi. Al contrario, misurarsi a qualsiasi distinzione fra puro e impuro, richiedeva nel sadhaka una mente pura (10) ed un atteggiamento eroico volto ad attraversare la notte buia prima della sperimentazione di quelle nozze mistiche da celebrarsi fuori e dentro di sé. Non è un caso che in ambito tantrico si distinguessero gli uomini, anziché sulla base della loro casta di appartenenza, a seconda delle loro condotte. Così, se l’uomo comune incapace di rompere i suoi vincoli sociali era paragonato ad un animale domestico (pasu bhava); soltanto il vero tantrika, intraprendendo una vera e propria condotta eroica (vira bhava), era considerato in grado di “accarezzare” il limite delle proprie possibilità, ivi innescando un processo di espansione centrifugo in grado di raccordarlo e trasformarlo nel Tutto. Soltanto se provassimo a passare in rassegna, infine, quelli che erano considerati i vincoli (pasa) che, almeno tendenzialmente, si credeva potessero incatenare l’uomo ad una vita “addomesticata”, ci potremmo rendere conto di quanto la via tantrica fosse ardua ed eroica: la paura, la pietà, l’aspettativa, l’idea di peccato, il disgusto, la casta, la famiglia e l’etica sono soltanto alcuni degli “strati” che il tantrika, anche e soprattutto grazie all’iniziazione (diksa) e all’accompagnamento di un maestro spirituale, si proponeva di erodere attraverso il fuoco della sadhana.

Diego Manzi
Dal Tantra “ai” Tantra
Articolo tratto dalla Rivista Bimestrale Hera n. 4 maggio/giugno 2017

Note al testo:
1 Ovviamente questo dato statistico concerne esclusivamente l’esperienza diretta di chi scrive e, soprattutto, non contempla quegli accademici i quali, in Italia e all’estero, continuano ad occuparsi in maniera seria e rigorosa di questa tradizione.
2 D. Manzi, Scintille di ordine eterno. Viaggio nel cuore della tradizione indiana, Armando Curcio Editore, Roma 2016.
3 Tanto per limitarsi alle scritture sivaite, ove sono rintracciabili i più significativi testi tantrici, basti dire che possono essere suddivise in due grandi filoni: quello degli Agama e quello, appunto, dei Tantra. Mentre i primi sono improntati su una metafisica essenzialmente “dualista”, essoterici e quasi per niente trasgressivi in relazione all’ortodossia brahmanica; in seno ai secondi, “sfumando” le distinzioni tra puro e impuro, si viene talvolta a creare una rottura abbastanza netta con la tradizione brahmanica.
4 Ove, almeno nella maggior parte dei casi, è la divinità maschile che indottrina quella femminile.
5 Il tantrika, o sadhaka, è colui che intraprende la pratica realizzativa tantrika.
6 Mahabharata, I, 15-17.
7 Hatha-yoga-Pradipika, III, 120.
8 Insieme di testi giuridici più rilevanti per la tradizione indiana, fra i quali si ricorda, data la sua indiscutibile autorevolezza, il Manava-Dharma-sastra, meglio noto in Occidente come le “Leggi di Manu”.
9 Mahanirvana-Tantra, VI, 20.
10 “La conoscenza dell’assoluto si genera nella mente purificata” recita il Mahanirvana-Tantra (VII, 94).

 

 

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