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166. Il Quinto Veda di René Guénon

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Tra gli errori specificatamente moderni che abbiamo avuto spesso l’occasione di denunciare, uno di quelli che si oppongono più direttamente a qualsiasi vera comprensione delle dottrine tradizionali è quello che si potrebbe chiamare ‘storicismo’, il quale non è altro, in fondo, che una semplice conseguenza della mentalità ‘evoluzionista’: esso consiste, in effetti, nel supporre che ogni cosa abbia dovuto avere inizio nella forma più rudimentale e grossolana, e poi subire una elaborazione progressiva, tanto che l’uno o l’altra concezione sarebbe apparsa in un momento determinato e tanto più tardi quanto più è giudicata d’ordine elevato, ciò implicando che essa non può essere che ‘il prodotto di una civilizzazione già avanzata’, secondo una espressione divenuta così corrente che è talvolta ripetuta meccanicamente anche da coloro che tentano di reagire contro una tale mentalità, ma che hanno solo delle intenzioni ‘tradizionaliste’ senza alcuna vera conoscenza tradizionale. A questo modo di vedere, conviene opporre nettamente l’affermazione che, al contrario, è all’origine che tutto ciò che appartiene al campo spirituale e intellettuale si trova in uno stato di perfezione, dal quale, in seguito non fa che allontanarsi gradualmente nel corso dell’ ‘ottenebramento’ che accompagna necessariamente ogni processo ciclico di manifestazione; questa legge fondamentale, che dobbiamo qui accontentarci di ricordare senza entrare in dettagli più approfonditi, è sufficiente, evidentemente, per ridurre a nulla tutti i risultati della sedicente ‘critica storica’. Si può anche notare che quest’ultima implica il partito preso ben definito di negare qualsiasi elemento sovra-umano, di trattare le dottrine tradizionali stesse alla maniera di un ‘pensiero’ puramente umano, del tutto paragonabile, a questo proposito, a ciò che sono la filosofia e le scienze profane; con questo punto di vista non è possibile alcun compromesso e, del resto, è in realtà proprio questo ‘pensiero’ profano ad essere di data assai recente, non essendo potuto apparire che come ‘prodotto di una degenerazione già avanzata’, come potremmo dire ribaltando in senso ‘anti-evoluzionista’ la frase prima citata.

Se applichiamo queste considerazioni generali alla dottrina indù, diremo che, contrariamente all’opinione degli orientalisti, non esiste nulla di ciò che è chiamato ‘Vedismo’, ‘Brahmanesimo’ e ‘Induismo’, se si intendono con questi termini delle dottrine che avrebbero visto la luce in epoche successive e si sarebbero sostituite le une alle altre, ciascuna di esse essendo caratterizzata da concezioni essenzialmente differenti da quelle delle altre, se non anche più o meno in contraddizione con esse, concezioni che si sarebbero così formate successivamente in seguito ad una ‘riflessione’ immaginata sul modello della semplice speculazione filosofica. Queste diverse denominazioni, qualora le si voglia conservare, non debbono essere intese che come indicanti una sola ed unica tradizione alla quale tutte possono in effetti convenire; e tutt’al più si potrebbe dire che ciascuna di esse si riferisce più direttamente ad un certo aspetto di quella tradizione, tenendo però presente che i diversi aspetti di essa si legano strettamente gli uni agli altri e non possono in alcun modo essere isolati. Ciò risulta immediatamente dal fatto che la tradizione di cui si tratta è, in linea di principio, contenuta integralmente nei Veda, e che, in conseguenza, tutto ciò che è contrario ai Veda o non ne deriva legittimamente, è per ciò stesso escluso da questa tradizione, sotto qualunque aspetto lo si consideri; l’unità e l’invariabilità essenziali della dottrina sono così assicurate, quali che siano gli sviluppi e gli adattamenti ai quali essa potrà dar luogo per rispondere più particolarmente ai bisogni e alle attitudini degli uomini dell’una o dell’altra epoca.

Deve ben comprendersi, infatti, che l’immutabilità della dottrina in se stessa non pone ostacolo ad alcuno sviluppo né ad alcun adattamento, alla sola condizione che essi siano sempre in stretta conformità con i principi, ma anche, nello stesso tempo, che nulla di tutto ciò costituisce mai una ‘novità’, poiché non potrebbe in ogni caso trattarsi d’altro che di una ‘esplicazione’ di ciò che la dottrina da sempre implicava, o anche la formulazione di una medesima verità in termini differenti per renderla più facilmente accessibile alla mentalità di un’epoca maggiormente ‘oscurata’. Ciò che all’inizio poteva essere immediatamente e senza difficoltà afferrato, gli uomini delle epoche successive non saprebbero più vederlo, tranne casi eccezionali, e bisogna allora supplire a questo difetto generale di comprensione con dettagli esplicativi e con commenti che prima non erano affatto necessari; di più: dato che le attitudini a pervenire direttamente alla conoscenza pura diventano sempre più rare, bisogna aprire altre ‘vie’ mettendo in opera dei mezzi sempre più contingenti, seguendo in qualche modo, per rimediarvi nella misura in cui è possibile, la ‘discesa’ che si effettua d’età in età nel percorso del ciclo dell’umanità terrestre. Così si potrebbe dire che quest’ultima riceve, per raggiungere i suoi fini trascendenti, delle facilitazioni tanto più grandi quanto più si abbassa il suo livello spirituale e intellettuale, al fine di salvare tutto ciò che può ancora essere salvato, tenendo conto delle condizioni inevitabilmente determinate dalla legge del ciclo.

E’ attraverso queste considerazioni che si può veramente comprendere il posto che occupa, nella tradizione indù, ciò che è abitualmente indicato con il nome di ‘Tantrismo’, e che rappresenta l’insieme degli insegnamenti e dei mezzi di ‘realizzazione’ più appropriate alle condizioni del Kali-Yuga. Sarebbe dunque del tutto errato vederne una dottrina a parte, e a maggior raggione un ‘sistema’ qualsiasi, come fanno spesso e volentieri gli Occidentali; a dire il vero, si tratta piuttosto di uno ‘spirito’ (il termine usato da Guénon è esprit), se ci si può così esprimere, che, in modo più o meno diffuso, penetra tutta la tradizione indù nella sua forma attuale, di modo che sarebbe pressoché impossibile assegnargli, all’interno di essa, dei limiti precisi e ben definiti; e, se si pensa del resto che l’inizio del Kali-Yuga risale molto al di là dei tempi detti ‘storici’ si dovrà riconoscere che l’origine stessa del Tantrismo, lungi dall’essere così ‘tarda’ come pretenderebbero alcuni, sfugge invece necessariamente ai ristretti mezzi di cui dispone l’investigazione profana. Inoltre, quando qui parliamo di origine, facendola coincidere con quella stessa del Kali-Yuga, ciò è vero solo a metà; più precisamente, ciò non è vero che a condizione di specificare che non si tratta del Tantrismo come tale,  cioè quale espressione o manifestazione esteriore di qualcosa che, come tutto il resto della tradizione, esisteva il principio negli stessi Veda, benché non sia stato formulato più esplicitamente e sviluppato nelle sue applicazioni ne non quando le circostanze lo hanno reso necessario. Si vede dunque che qui vi è un doppio punto di vista da considerare: da una parte, si può trovare il Tantrismo fin nei Veda, poiché vi è principalmente incluso, ma, dall’altra, esso non può propriamente essere individuato, come aspetto distinto della dottrina, che a partire dal momento in cui è stato ‘esplicitato’ per le ragioni che abbiamo indicato, e solo in questo senso lo si può considerare come particolarmente relativo al Kali-Yuga.

La denominazione di cui si tratta deriva dal fatto che gli insegnamenti che ne costituiscono la base sono espressi in trattati che portano il nome generico di Tantras, nome che ha un rapporto diretto con il simbolismo della tessitura, poiché in senso proprio, tantra è l’ ‘ordito’ di un tessuto; e abbiamo fatto rilevare che, anche altrove, si trovano parole dallo stesso significato applicate ai Libri sacri. Questi Tantras sono spesso considerati come formanti un ‘quinto Veda’, destinato particolarmente agli uomini del Kali-Yuga; e ciò sarebbe del tutto ingiustificato se essi non fossero, come abbiamo in precedenza spiegato, derivati dai Veda intesi nella loro accezione più rigorosa, a titolo di adattamento alle condizioni di una determinata epoca. Bisogna peraltro tenere presente che in realtà il Veda è uno, principalmente e in qualche modo ‘intemporalmente’, prima di divenire triplice e poi quadruplice nella sua formazione; e se può essere anche quintuplice nell’età attuale, a causa degli sviluppi supplementari richiesti da facoltà di comprensione meno ‘aperte’ e che non possono più esercitarsi direttamente nell’ordine dell’intellettualità pura, è evidente che ciò non tocca più che tanto la sua primigenia unità, che è essenzialmente il suo aspetto ‘perpetuo’ (sanatana), e dunque indipendente dalle condizioni particolari di qualsiasi età.

La dottrina dei Tantras, dunque, non è e non può che essere altro se non uno sviluppo normale, secondo certi punti di vista, di ciò che è già contenuto nei Veda, poiché è in essi, e solo in essi, che questa può essere, come in effetti è, parte integrante della tradizione indù; e, per quanto riguarda i mezzi di ‘realizzazione’ (sadhana) prescritti dai Tantras, si può ben dire che, allo stesso modo, essi sono derivati legittimamente dai Veda, poiché in fondo non sono null’altro che l’applicazione e l’effettiva messa in opera di questa medesima dottrina. Se questi mezzi, tra i quali bisogna naturalmente comprendere, sia a titolo principale che semplicemente accessorio, i riti di ogni genere, sembrano tuttavia rivestire un certo carattere di ‘novità’ in rapporto a quelli che li hanno preceduti, ciò è perché nelle epoche anteriori non era il caso di prenderli in considerazione, se non forse a titolo di mera possibilità, poiché gli uomini non ne avevano allora alcun bisogno e disponevano di altri mezzi che meglio convenivano alla loro natura. Vi è in ciò qualcosa di paragonabile allo sviluppo speciale di una scienza tradizionale nell’una o nell’altra epoca, sviluppo che non costituisce certo una ‘apparizione’ spontanea o una ‘innovazione’ qualsiasi, poiché, anche in questo caso, non può mai in realtà trattarsi che di una applicazione dei principi, e dunque di qualcosa che aveva in essi una preesistenza per lo meno implicita, e che era sempre possibile, in conseguenza, rendere esplicita in qualsiasi momento, a patto che vi fosse qualche ragione per farlo; ma, precisamente, questa ragione si trova, di fatto, solo nelle circostanze contingenti che condizionano una determinata epoca.

Ora, che i riti strettamente ‘vedici’, cioè quali essi erano ‘all’inizio’, non siano attualmente più praticabili, risulta fin troppo chiaramente dal solo fatto che il soma, il quale vi giocava un ruolo capitale, è perduto da un tempo che è impossibile valutare ‘storicamente’; ed è chiaro che, quando parliamo di soma, questo deve essere considerato come rappresentante tutto un insieme di cose la cui conoscenza, all’inizio manifesta e accessibile a tutti, è poi divenuta nascosta nel corso del ciclo, almeno per la umanità ordinaria. Bisogna dunque che per queste cose vi fossero dei ‘surrogati’ che, necessariamente, non potevano trovarsi che in un ordine inferiore, cosa che porta a dire che i ‘supporti’ grazie ai quali una ‘realizzazione’ si rende possibile diverranno sempre più ‘materializzati’ da un’epoca all’altra, conformemente al cammino discendente dello sviluppo ciclico; una relazione come quella tra vino e soma, quanto al loro uso rituale, potrebbe servire da esempio simbolico. Questa ‘materializzazione’ non deve peraltro essere intesa semplicemente nel senso più ristretto ed ordinario del termine; così come noi l’intendiamo, essa comincia a prodursi, si può dire, appena si esce dalla conoscenza pura, la quale sola è anche pura spiritualità; e il richiamo ad elementi di ordine sentimentale o volitivo, ad esempio, non è il meno importante nei sintomi di una simile ‘materializzazione’, anche se questi elementi sono impiegati in modo legittimo, cioè se sono presi solo come mezzi subordinati ad un fine che resta sempre quello della conoscenza, poiché se fosse altrimenti, non si potrebbe in alcun modo parlare di ‘realizzazione’, ma solo di una deviazione, di un simulacro o di una parodia, tutte cose che, non c’è bisogno di dirlo, sono rigorosamente escluse dall’ortodossia tradizionale, in qualunque forma e a qualunque livello possano considerarsi.

Ciò che abbiamo detto da ultimo, si applica esattamente al Tantrismo, la cui ‘via’, in senso generale, appare come più ‘attiva’ che ‘contemplativa’, o, in altri termini, come situata più dal lato della ‘potenza’ che da quello della conoscenza; e un fatto particolarmente significativo, a questo proposito, è l’importanza che esso dà a quello che viene chiamata la ‘via dell’eroe’ (vira-marga). E’ evidente che virya, termine equivalente al latino virtus, per lo meno secondo l’accezione che aveva prima che fosse volto in senso ‘morale’ dagli Stoici, esprime propriamente la qualità essenziale e in qualche modo ‘tipica’, non del Brahmano, ma dello Kshatriya; e il vira si distingue dal pashu, cioè dall’essere assoggettato ai legami dell’esistenza comune, non tanto per una conoscenza effettiva quanto per una affermazione volitiva ‘d’autonomia’ che, a questo stadio, può ancora, secondo l’uso che egli ne faccia, allontanarlo dallo scopo come condurvelo. Il pericolo, in effetti, è che la ‘potenza’ venga ricercata per se stessa e divenga così un ostacolo invece d’essere un appoggio, e che l’individuo la prenda come proprio fine; ma va da che questa è una deviazione e un abuso che è sempre il risultato, in definitiva, da una incomprensione di cui la dottrina non può certo essere considerata responsabile; e d’altronde, ciò che abbiamo detto concerne la ‘via’ in quanto tale, non lo scopo che, vi insistiamo ancora, è sempre lo stesso e non può in alcun caso essere altro che la conoscenza, poiché è solo attraverso essa ed in essa che l’essere si ‘realizza’ veramente in tutte le sue possibilità. Né è men vero che i mezzi proposti per raggiungere questo scopo sono inevitabilmente contrassegnati dai caratteri speciali del Kali-Yuga: ci si ricordi, a questo proposito, che il ruolo proprio dell’ ‘eroe’ è sempre e dovunque rappresentato come una ‘cerca’ che, se può essere coronata da successo, rischia anche di sfociare in uno scacco; e la ‘cerca’ stessa presuppone che vi sia, quando l’ ‘eroe’ appare, qualcosa che sia stato anteriormente perduto e che lui deve ritrovare; questo compito, al termine del quale il vira diverrà divya, può essere indicato, se si vuole, come la ricerca del soma o della ‘bevanda d’immortalità’ (amrita), il che è, del resto, dal punto di vista simbolico, l’esatto equivalente di ciò che è stata in Occidente la ‘cerca del Graal’; e, grazie al soma ri-trovato, la fine del ciclo si ricongiunge al suo inizio nell’ ‘intemporale’.

tratto da “Studi sull’Induismo” di René Guénon – Basaia Editore Roma –
traduzione a cura di Antonino Anzaldi
l’originario articolo pubblicato in Etudes Traditionelles, agosto-settembre 1937

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