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841. Cos’è lo Yoga di Tran-Thi-Kim Dieu

Martedì 27 Marzo 2018 00:00 Rosario Castello
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Introduzione
Ogni essere umano ha il dovere di realizzare la sua natura divina e il diritto di percorrere la propria via personale verso il Divino. La via in non è diversa dallo yoga, o religione – la riunificazione del sé con il Sé unico o Divino. Il bisogno di praticare lo yoga e, prima ancora, di riflettere sui temi correlati alla natura umana e al destino, testimonia della maturazione dell’anima. Il senso che manchi qualcosa, nonostante le occupazioni, l’insoddisfazioni che da queste deriva, insieme con i momenti di infelicità, provano che la conoscenza intellettuale, ad un certo punto, non basta più.
E, in effetti, praticare lo yoga non significa necessariamente frequentare una delle sue numerose scuole. Chi può farlo ai nostri giorni? E sarebbe poi così saggio? Un’esposizione delle sei grandi filosofie (shad-darśana-s), corredata delle spiegazioni dei vari tipi di yoga – da quello dei principianti a quello reale – non sarà di alcun aiuto se tale conoscenza rimane confinata a livello teorico perché, secondo Nagarjuna, uno degli intelletti più brillanti, senza auto-realizzazione essa non vale niente. Nell’Età del Ferro (Kali-yuga) non c’è più tempo per le speculazioni teoriche; è il momento della realizzazione pratica.

Che cosa può essere lo yoga
L’ispirazione, che si può utilizzare come ingrediente per la propria crescita spirituale, può venire da molte fonti, sempre che ci si rifletta sopra nel modo appropriato e le si applichi, nel corso dell’esistenza, nella giusta maniera, come un esperimento. Similarmente, lo yoga può essere, allo stesso tempo o in successione, ma inevitabilmente, tutto questo: abilità nell’azione, annientamento delle modificazioni mentali, purificazione, studio globale del sé, abbandono al Divino, e così via. Ciascuno di questi è vero e prezioso e definisce una forma di yoga.
L’abilità nell’azione è la caratteristica del karma yoga. L’annientamento delle modificazioni mentali è il fine del rāja yoga. Quest’ultimo culmina con il samādhi, uno stato in cui l’attività della mente non si può verosimilmente descrivere. La purificazione, lo studio globale del sé e l’abbandono al Divino sono i fondamenti dello yoga. H.P. Blavatsky usava dire che studiare l’occultismo – attraverso la letteratura teosofica, come ad esempio con La Dottrina Segreta – è jnāna yoga. Senza dubbio anche questa via è lunga e valida quanto le altre. Il Bhakti yoga sembra essere il più adatto per i discepoli inclini al piano devozionale. Di profonda ispirazione quanto gli Yoga Sutra di Patanjali – i cui commenti a cura del dr. I.K. Taimmi incantano le menti di tutti gli studenti – sono i Bhakti Sutra di Narada, che introducono l’elemento dell’amore-devozione incondizionato dell’aspirante al Divino, dallo studente a quei Grandi Esseri che insegnano la Verità di cui sono in possesso. Si sente spesso affermare che la via devozionale è la più breve. Se ne può presumere la ragione: forse sembra una scorciatoia attraverso il labirinto dell’esistenza.
Tuttavia, comune a tutti i tipi di yoga, la conditio sine qua non, sembra essere la “purezza della motivazione”. Effettivamente, quando il Signore Krishna, come riferito nella Bhagavadgitā, nel bel mezzo della battaglia di Kurukshetra (la battaglia tra il bene e il male), rivela ad Arjuna la natura segreta dell’azione, “Yoga è abilità nell’azione”, questo consiglio vale solo per Arjuna. Sarebbe impensabile che Krishna consigliasse la stessa cosa a – diciamo – Karna, l’ambizioso (e fuoricasta, a causa dell’ignoranza sulle proprie origini) o a Sakuni, il truffatore del gioco d’azzardo. La ragione è piuttosto ovvia: Arjuna rappresenta il discepolo che combatte per la propria realizzazione e chiede istruzioni, mentre Karna è ancora governato dalla sua natura inferiore, alla ricerca del successo nell’azione per il proprio interesse e guidato da vanità e rabbia; Sakuni, d’altra parte, non ha la giusta motivazione e la corretta comprensione della vera natura del Mahā-Lilā – il gioco divino; egli non scommette, bara.
Immaginiamo comunque Krishna dire a Karna: “Yoga è capacità nell’azione”. Quest’ultimo affermerebbe di non aver bisogno di un consiglio siffatto, ma di possedere già tale perizia. Questa comunque serve solo alla sua ambizione. Lo stesso vale per Sakuni, che pure ha delle capacità: egli vince ogni partita con Yudhishthira, il futuro re. L’abilità di Sakuni è al servizio della causa sbagliata.
Per i molti Karna e Sakuni che esistono sulla Terra, lo yoga deve prima di tutto essere “correlato a qualcosa che purifica le capacità e trascende la motivazione”. Il consiglio di Krishna vale per tutta l’umanità solo quando colui che lo riceve è già passato attraverso la fase preliminare. Pertanto lo yoga è abilità in azione solo quando il lavoro preparatorio è stato compiuto.
Purificare la motivazione sembra essere il primo passo del lavoro introduttivo. Apprendere l’intelligenza nel pensare è il secondo. Questo lavoro è così essenziale che, in diverse civiltà, insegnanti spirituali differenti vi hanno ripetutamente messo l’accento. Notoriamente, più di recente, Alcyone (J. Krishnamurti), in Ai Piedi del Maestro, ci ricorda la necessità dell’azione sincera e appassionata e il ruolo essenziale della discriminazione. Egli considera tale tipo di azione come una mente priva del Sé, uno stato che è anche amore-compassione. Egli pone allo stesso livello l’imparare e l’applicare intelligenza e discriminazione, primo ed ultimo passo dello sviluppo spirituale. La discriminazione intaglia e scolpisce l’anima-diamante umana per farne un dio.
Notevole è l’ordine del contenuto di questo piccolo libro, cosa che indica un modo eccellente di insegnare. Effettivamente, la parte che ha a che fare con la retta condotta (shatsampatti) – che è proprio un capitolo del Vivekachudāmani – si pone tra la discriminazione (viveka, il primo e ultimo gradino) e l’amore (mumukshatva, il requisito). Questo significa che l’inizio e la fine del viaggio vengono mostrati prima di insegnare il comportamento, ovvero come vivere eticamente, come procedere nel giusto modo attraverso il ciclo dell’esperienza umana. Infine arriva il monito a prestare attenzione poiché nessuna pratica morale ha valore se priva di amore.
Si potrebbe dire che yoga è insieme purezza di motivazione, intelligenza nel pensiero e capacità in azione. Inoltre, forse, è armonizzazione consapevole di tutti gli aspetti dell’essere umano cosicché alla fine tutti operino sotto lo stesso volere, quello del Divino. Su scala più ampia, questo implica completa e perfetta rifrazione del Divino sui piani più bassi della manifestazione. Ma allora, cos’è il Divino?

Proviamo a fare un passo avanti
La teosofia insegna che il Divino è allo stesso tempo la fonte primeva da cui tutti gli esseri hanno origine e il fine ultimo cui tutti gli esseri faranno ritorno. È anche l’epilogo inesorabile del viaggio evolutivo universale. Senza ricorrere a una terminologia tecnica si può identificare il Divino con la Realtà Ultima. Leggendo tra le righe della maggior parte della letteratura teosofica, si può osservare che il termine “Divino” viene usato ogni qualvolta è implicato un senso di devozione, mentre il sostantivo “Realtà” quando è coinvolto l’Intelletto o pura Ragione (o manas superiore). Un’aspirante del bhakti yoga preferirebbe fare riferimento alla Realtà Ultima come “Divino”, piuttosto che come “Realtà”, mentre un aspirante del raja yoga farebbe il contrario. È comprensibile che la scienza non usi il termine “Divino”, ma piuttosto che tocchi, in modo approssimato, il concetto di realtà.
La scienza è quell’insieme di metodologie relativamente recenti che investiga sul mondo fisico per conoscerne i meccanismi, le strutture e la natura. Se la compariamo con la scala geologica è davvero recente. Alla fine del XX secolo la scienza, apparentemente agendo quale nostra grande “alleata”, ha portato la mente verso un ampliamento dei concetti di materia, spazio, tempo e coscienza. “L’avanguardia dell’intelletto umano” si interroga sui confini tra la vera scienza e la spiritualità, osando prendersi il rischio di non schierarsi né da una parte né dall’altra. Così facendo utilizza – rendendosene conto o meno – degli indizi dati da maestri altamente evoluti, gli Adepti dell’Occultismo. Quegli Adepti – a loro stesso dire – si sono immersi, seppure a rischio delle loro vite, nel profondo oceano della coscienza, per portare alla superficie perle di Verità (Le Lettere dei Mahatma). Sembra quasi che gli Adepti abbiano lasciato la porta dell’intuizione mezza aperta, citando la possibilità di ulteriori conoscenze su materia, spazio, tempo e coscienza, così da dare alla scienza un impulso per tentare di aprire ancor di più quella porta, lasciando che tutto il resto venga investigato e conseguito da ciascun essere umano. Schiudere di più la porta dell’intuizione rende più semplice il passaggio di coloro che ancora devono venire.
Ciascun essere umano è un mondo a sé stante. Tale mondo è composto da una parte interiore e di una esteriore le quali, per dirla in maniera semplice, si interpenetrano e si includono a vicenda tramite lo spazio. Gli esseri umani meno evoluti tendono a separare il mondo interiore da quello esteriore e a vivere con questa dicotomia, sempre o a tratti. I più evoluti, invece, i mistici realizzati, vivono simultaneamente nei due mondi, sublimati in uno e identificati con lo spazio. Il qui e ora, tanto denigrato dalla tendenza edonistica dei nostri giorni, è in effetti la condizione ultima dello spazio, dove non c’è tempo ma solo durata.
Le incursione della coscienza umana individuale nello spazio portano momenti di vuoto, dove il tempo viene trasceso tanto quanto altre condizioni del vivere. Esso dissolve l’ego personale per una frazione di tempo e porta nuove intuizioni nella coscienza e nel cervello. Questo può accadere durante uno stato di intensa e adeguata preghiera – o corretta concentrazione – quando l’intero “flusso” della sostanza mentale si focalizza in un’unica direzione, che è più profondo, più ampio e più elevato (i tre termini sono equivalenti) livello del proprio ambiente e della propria struttura, raggiungendo alla fine l’ultimo e più raffinato stato della sua sostanza – lo spazio.
È necessario chiarire un punto: lo spazio, così come lo definisce la scienza, non è lo spazio che qui stiamo cercando di definire. Per la scienza lo spazio è quello che contiene tutti gli universi, il teatro di tutti i fenomeni cosmici; è spazio esteriore oggettivo. Lo spazio, secondo il nostro modo di vedere, è quello che pervade tutto e include il mondo esteriore oggettivo tanto quanto quello interiore soggettivo. Ogni livello di coscienza ha la propria realtà; il piano ultimo, la Realtà ultima, deve avere qualcosa a che fare con lo spazio. Anche lo stato di coscienza in samadhi, che si ritiene essere esperienza diretta di quella Realtà, deve avere, di conseguenza, qualcosa a che fare con lo spazio.

Ma allora cos’è lo spazio?
Lo spazio era, è e sarà. Secondo la definizione che ne dà il Proemio de Le Stanze di Dzyan, è quello che rimarrà quando tutto si sarà dissolto. Rispondendo alla domanda su che cosa resterà alla fine di un grande ciclo di manifestazione o manvantara, Platone, secondo quanto riportato nella conclusione al primo volume de La Dottrina Segreta, rispose: il bene. La letteratura teosofica talvolta identifica lo spazio con l’akasa, considerata la sostanza cosmica ultima nella filosofia vedantica, il substrato del suono. Da qualche altra parte essa viene definita il solvente universale e l’anima mundi. Il sistema Advaita Vedanta la definisce come mulaprakrti, la sostanza-radice, Purusha velato da maya. Negli insegnamenti buddhistici Mahayana è chiamata alaya, lo strato basilare e ultimo della coscienza; mentre il buddhismo esoterico nepalese entro i propri confini lo chiama svabhavat, la qualità essenziale della sostanza-radice come tale, ovvero l’essenza immutabile della sostanza-radice, nel suo eterno moto. Ciò che è è la Realtà. Lo spazio è allora sia il substrato sia l’essenza che vi sottende, o Realtà.
Il termine svabhavat è composto di su, sva e bhava; su significa buono, perfetto, bellissimo; sva è la qualità intrinseca di qualcosa e bhava la qualità dell’essere. L’essenza immutabile della materia-radice è non solo in perpetuo moto, ma anche perfetta e buona. Questo può essere correlato a karuna, la qualificazione buddhista di amore-compassione che caratterizza il livello di alaya, lo strato ultimo della coscienza che tutto pervade; che è a dire che all’inizio e alla fine della manifestazione l’amore-compassione sta alla radice delle sue fondamenta e che questo amore caratterizza la Realtà.
Conseguentemente e coerentemente, qualsiasi cenno alla realtà risveglia la coscienza all’amore-compassione. Allo stesso modo, quando i limiti difensivi dell’ego personale si disgregano nel solvente universale, l’amore-compassione appare nel vuoto dell’ego e attesta il senso della Realtà. Poiché lo spazio o realtà – dove è radicata la coscienza – è eterno, vivere con la presenza cosciente dello spazio è vivere nell’eterno. Yoga è vivere con un senso crescente della realtà.

Consapevolezza dello strato che sostiene tutte le cose
Vivere con un crescente senso della Realtà mette tutte le cose al loro livello relativo. Mentre abbiamo a che fare con le occupazioni quotidiane, la mente tiene presente a se stessa, sullo sfondo, ciò che è essenziale-vitale in contrasto con quello che è solo importante-utile da realizzare nel mondo esteriore.
Misurate con quell’Unità che è spazio, tutte le cose appariranno prive di valore, a causa della loro impermanenza. Nessuna di esse potrà più avere fascino per la mente dell’aspirante-discepolo: ricchezza, piaceri dei sensi e soprattutto il senso del potere. Ricchezza e piaceri dei sensi appartengono ai piani fisico e astrale. Sono meno sottili del senso del potere, che appartiene alla mente. La mente – tramite il suo potere – può padroneggiare il desiderio per ricchezza e sensualità ma non il desiderio del potere, perché la mente inferiore, questa parte terrena di manas, investita dell’ego personale, trae il proprio potere da uno ancora più elevato e ne fa uso per derivazione. Proprio come il fuoco non può estinguere il fuoco, la mente non può padroneggiare il senso del potere.
Nonostante tutto, la mente inferiore può uscire dal suo labirinto con un atto di rifiuto (o di negazione) dall’identificazione con un piano inferiore. È un atto di integrazione che fa avanzare la mente verso il principio della discriminazione (buddhi). La mente inferiore si lascia andare e, facendo così in modo costante, a volte permette l’incursione dello spazio. In effetti, questa azione del lasciare andare può essere fatto solo tramite l’amore o la volontà, ma non con la ragione. Viene dalla forza di volontà, da ātmā, il principio spirituale più elevato nell’individuo. Quando l’ego svanisce vi è il vuoto: non ci sono più limiti, si comprende l’illusione dei nomi, delle forme e delle figure. Tale vuoto non è che presenza conscia. La consapevolezza del substrato che sostiene tutte le cose è parte della realizzazione.
In quel flusso di coscienza entro la coscienza, tutte le domande vengono riassorbite e spazzate via. Nondimeno anche questo stato segue il ritmo dell’apparire, svilupparsi e finire e, quando finisce, le questioni essenziali-vitali che stavano sullo sfondo della mente appaiono di nuovo, in modo naturale. Ci si continua a interrogare, ricchi di nuove intuizioni, ma non vi sarà nessuna risposta finale soddisfacente; anche tale interrogarsi è parte della realizzazione. L’alternanza di realizzazione e interrogazione aiuterà ad espandere ulteriormente i confini dei misteri. Questi, uno dopo l’altro, saranno svelati. Eppure ci saranno sempre veli su veli, fino all’ultimo, il Mistero ultimo che, una volta oltrepassato, renderà l’Anima-Diamante un Dhyan Chohan o un Buddha. Lo Yoga, a quel livello, può essere definito lo yoga della teosofia.

di Tran-Thi-Kim Dieu
tratto da Rivista Italiana di Teosofia
ANNO LXXIV N. 1, GENNAIO 2018

 

Tran-Thi-Kim Dieu è la presidente della Federazione Teosofica Europea.