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235. Perché lo Yoga? di Danielle Audoin

Giovedì 31 Maggio 2012 00:00 Rosario Castello
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Prima di iniziare lo studio dello yoga preliminare o preparatorio, dobbiamo cercare di comprendere il perché occorra assolutamente decidersi ad intraprendere un tale lavoro. Per poter partire all’avventura in una terra sconosciuta, per sopportare l’intensa preparazione che esige una tale impresa, sia che si tratti della scoperta di una giungla inesplorata, o dell’ascensione alle vette più alte del mondo, o ancora di un viaggio a bordo di un vascello spaziale, occorre essere seriamente motivati per una tale impresa. A maggior ragione, per voler trasformare la propria natura e prepararsi a sostenere degli sforzi prolungati, non di qualche mese o qualche anno ma addirittura di più vite, occorre comprenderne l’urgenza e la necessità.
Se affronteremo lo yoga per semplice curiosità è probabile che non andremo molto lontano. Le prime difficoltà smorzeranno presto il nostro entusiasmo e cercheremo allora un cammino meno impegnativo. Se l’affronteremo per gratificare la nostra personalità, per ambizione personale, oppure se cercheremo di utilizzare le tecniche dello yoga per realizzare delle particolari prestazioni fisiche o mentali, ci troveremo in contraddizione con la vera finalità dello yoga, che è quella del superamento dell’io personale.
In questo caso sarà molto probabile il rischio di deviare su quello che si chiama il “sentiero di sinistra”, il sentiero della separatività; infatti, più è grande il senso dell’io ed il suo orgoglio e maggiore è anche il sentimento di separatività.
L’unica e seria motivazione che deve incitarci ad intraprendere la pratica dello yoga preliminare, pratica che ci renderà capaci di sostenere gli sforzi richiesti, sia a livello fisico che affettivo e mentale, è il desiderio intenso di liberarci dalle illusioni, dalle limitazioni e dalle sofferenze umane, e tale desiderio potrà nascere in noi solo quando avremo compreso le cause profonde di tutte queste miserie.
Quando ci rendiamo conto di gravi e profonde difficoltà ne ricerchiamo le cause immediate nel nostro comportamento particolare, nell’ambiente in cui viviamo, nelle condizioni della nostra infanzia e così via. Anche la psicologia e la psicanalisi cercano di trovare per ogni caso particolare una causa, una responsabilità specifica che possa illuminare chi soffre e possibilmente aiutarlo a modificare il suo comportamento. Più in generale, si può dire che si cerca una risposta particolare per ogni problema e che, nella società attuale, tali scienze psicologiche sono indirizzate per lo più a determinate categorie di persone che riteniamo più provate delle altre o più sensibili, anche se certe leggi generali possono essere acquisite poco per volta da tali scienze ancora relativamente giovani.
Per Patanjali e per la filosofia dello yoga la sofferenza è inerente alla natura umana ed ha la sua causa profonda nel fenomeno della manifestazione. Finché l’uomo non avrà compreso il processo dell’involuzione e dell’evoluzione, sarà presente in lui la potenzialità della sofferenza, anche se egli in certi momenti potrà trovarsi nelle condizioni di sperimentare una vita apparentemente facile e piacevole. Patanjali, per mezzo dello yoga, cerca di liberarci non soltanto dalla sofferenza del momento, ma anche dalla potenzialità della sofferenza stessa e, per questo motivo, egli si sforza di farci prendere coscienza della radice di tale sofferenza. Questo appunto è ciò che egli espone nella filosofia dei klesa.
Nel secondo sutra del secondo capitolo degli yogasutra, si legge:
Lo yoga preliminare è praticato per attenuare i klesa”.

I klesa sono le cause profonde, ultime di tutte le sofferenze della vita. Cinque sono i klesa, che sono denominati in sanscrito:

avidya, asmita, raga, dvesa, abhinivesa.

Questi termini sono tradotti generalmente come: l’ignoranza, l’egoismo, l’attrazione, la repulsione e l’attaccamento alla vita.
Per molte parole sanscrite non è possibile trovare termini esattamente equivalenti nella nostra lingua. Così il termine “ignoranza” è del tutto insufficiente per tradurre la avidya, e dobbiamo ricorrere ad una perifrasi, precisando che avidya è l’ignoranza della nostra vera natura. Non si tratta dell’ignoranza nel senso in cui noi l’intendiamo abitualmente, né si tratta dell’assenza di sapere. Si tratta dell’oblio della nostra natura Divina, di quell’oblio nel quale noi tutti siamo sprofondati. Per poter compiere il suo grande viaggio nei mondi della manifestazione la Monade, o scintilla Divina, deve avvolgersi in veli protettivi, imprigionandosi in corpi sempre più densi, e la Coscienza deve immergersi nella materia accettandone le limitazioni che conseguono. Mano a mano che procede in ciò che è chiamata la discesa, l’involuzione, la Monade si addormenta sempre più e, allorquando inizia la risalita, ossia l’evoluzione, ella ha completamente dimenticato la sua origine divina. Questo è ciò che è chiamato avidya, il primo dei cinque klesa. Questa dimenticanza, questo oblio, pare essere indispensabile perché possa realizzarsi tutto il processo della manifestazione. Avidya è come una forza che spinge, per così dire, il raggio della Monade a discendere sempre più profondamente nei mondi inferiori, ad esteriorizzarsi, allontanandosi sempre più dal suo Centro. Tutto questo non sarebbe certamente possibile se la Coscienza non fosse addormentata all’interno di quei veicoli di materia che l’inviluppano.
Al momento dell’entrata nel regno umano comincia a manifestarsi una certa autocoscienza; è ciò che è chiamato il processo di individuazione. L’uomo dapprima prende coscienza del suo corpo fisico poi, allorchè realizza il risveglio delle sensazioni e dei sentimenti, prende coscienza del suo corpo astrale ed infine, quando comincia a pensare, del suo corpo mentale. Questi tre grandi stadi dell’evoluzione umana vengono rivissuti, in ogni incarnazione, durante l’infanzia e l’adolescenza.
Ma ad ogni presa di coscienza si accompagna un processo di identificazione e così, dato il totale oblio della sua vera natura, l’uomo si identifica con ciò di cui egli è cosciente. Nasce così asmita, il secondo dei klesa, che è tradotto generalmente come egoismo ma che, più esattamente, è il senso dell’”io sono”. Asmita non è l’egoismo in senso stretto, nel senso morale del termine, ma piuttosto è il senso dell’io, vale a dire l’identificazione dell’uomo con ciò che egli conosce di se stesso. All’attuale livello dell’evoluzione, l’uomo è cosciente del suo corpo fisico, dei suoi sentimenti e dei suoi pensieri, il cui insieme costituisce ciò che noi chiamiamo personalità ed in cui egli si identifica completamente. Al nostro livello, asmita è l’identificazione con la personalità; l’uomo, che in realtà è una Scintilla Divina, scambia se stesso con la personalità. E così avidya, l’ignoranza della sua vera natura, fa insorgere asmita, l’identificazione dell’uomo con i suoi corpi, l’identificazione della Coscienza con i veicoli della coscienza.
All’identificazione si accompagna il sentimento della separatività. Rinchiuso nella sua personalità, l’uomo si sente separato da tutte le altre personalità, e da qui nascono quelle “attrazioni” e quelle “repulsioni” che costituiscono la base di tutti i rapporti umani. L’uomo è attirato dalle cose e dalle persone che procurano “piacere” alla sua personalità ed egli cerca, per contro, di evitare tutto ciò che gli procura “dispiacere”. Quel piacere che si ricerca e che non si è potuto ottenere, e quel dispiacere che non si è riusciti ad evitare sono all’origine di gran parte delle sofferenze e delle miserie della vita umana. Queste attrazioni e repulsioni sono ciò che Patanjali chiama raga e dvesa. Esse derivano direttamente da quel sentimento dell’”io sono”, poiché attrazione e repulsione possono sussistere solo dove vi sono degli elementi separati, e là dove vi è l’io vi sarà inevitabilmente anche il non io. Maggiori sono nell’uomo il sentimento di separatività ed il senso dell’io e più forti saranno le sue attrazioni e le sue repulsioni, e più grande sarà anche il suo attaccamento alla vita, abhinivesa, l’ultimo dei klesa.
L’uomo è attaccato alla vita perché vuole soddisfare tutte queste attrazioni; ma anche le sue repulsioni rappresentano un legame molto forte e di questo possiamo renderci conto constatando fino a qual punto siano dipendenti l’una dall’altra due persone che si detestano. Vediamo così che attrazione e repulsione fanno insorgere l’attaccamento alla vita. Tale attaccamento, conseguenza ultima dell’ignoranza della nostra vera natura, è dovuto all’infossarsi della Coscienza nella materia e noi possiamo ritrovarlo in tutti gli uomini, sia in coloro le cui condizioni di vita sono assai ingrate, così come in coloro che hanno avuto modo di riflettere sui profondi problemi della vita.
Questi sono dunque i cinque klesa, che si costituiscono come una reazione a catena, poiché avidya, l’ignoranza della nostra vera natura, fa insorgere il senso dell’”io sono” il quale, a sua volta, è all’origine di quelle attrazioni e repulsioni che generano l’attaccamento alla vita. Ma, d’altro canto, si potrebbe anche dire che l’attaccamento alla vita suscita le attrazioni e le repulsioni che danno luogo al senso dell’io, il quale c’impedisce di prendere coscienza della nostra vera natura. Noi vediamo così che siamo imprigionati in un cerchio vizioso, una catena ininterrotta di cause ed effetti che ci riconducono senza sosta, vita dopo vita, sotto la schiavitù delle illusioni.
È molto importante avere una chiara percezione di quanto siamo condizionati dai klesa, anche quando la nostra vita sembra apparentemente felice. Patanjali dice che, per coloro che hanno sviluppato il discernimento, tutto appare miserevole e anche la stessa felicità appare come miseria. Tutto questo, a prima vista, può apparire particolarmente sconcertante, ma se riflettiamo profondamente, se non ci limitiamo ad una visione superficiale della vita, allora riusciremo a comprendere la fragilità di ciò che gli uomini chiamano felicità. La proprietà della manifestazione è il movimento, il cambiamento, il nascere ed il morire di ogni forma, di ogni fenomeno, di ogni avvenimento e di ogni essere vivente. Noi diciamo di vivere in un’epoca di instabilità, poiché gli avvenimenti sembrano svolgersi più in fretta rispetto ad altri periodi storici considerati più calmi. Ma, a ben guardare, è sempre accaduto che le guerre si alternassero alla pace, che le civiltà morissero, che le famiglie si disgregassero e che coloro che si amano dovessero un giorno lasciarsi. Questa non è una visione pessimistica della realtà, bensì una visione obiettiva e realistica. Il prenderne coscienza è ciò che Patanjali chiama lo sviluppo del discernimento, sviluppo che ci fa comprendere come tutto ciò sia effettivamente miserevole.
Per l’uomo che resta attaccato alle apparenze, all’illusione della separatività, che attende la sua felicità dagli avvenimenti esteriori, dalle condizioni materiali e sentimentali nelle quali vive, tutto non può che essere miserevole, a causa del cambiamento ineluttabile, a causa della paura, più o meno percepita, di tale mutamento, della fine di ciò che gli arreca felicità.
Vediamo così che non dobbiamo trascurare lo studio dei klesa, poiché essi ci riguardano sempre in modo molto urgente, sia quando il karma ci fa vivere in un determinato momento in maniera apparentemente piacevole, sia quando invece soffriamo. Questo studio è indispensabile se vogliamo veramente trovare una risposta a tutte le questioni serie della vita, se realmente vogliamo aiutare coloro che soffrono.
La grande miseria del mondo ha sempre suscitato e suscita ancora grandi sentimenti caritatevoli. Essere generosi sono riusciti a scuotere, sia pur di poco, il generale egoismo e a fondare delle organizzazioni caritatevoli per alleviare le piaghe di coloro che soffrono, per attenuare le conseguenze di tale miseria. Ma fintanto che la causa ultima non è risolta, sorgeranno sempre delle nuove sofferenze, occorreranno sempre nuovi aiuti ed un numero sempre maggiore di organizzazioni caritatevoli. Non si guarisce definitivamente una malattia, sia che si tratti di una malattia fisica o di una malattia psichica, finché non si troverà la causa che la fa insorgere e non si conosceranno i mezzi per debellarla. Soltanto rendendoci conto di tutto questo, noi comprenderemo l’importanza della filosofia dei klesa esposta da Patanjali e dall’insegnamento occulto tradizionale.
A questo punto possiamo anche renderci conto dell’importanza di un’organizzazione quale la Società Teosofica, fondata unicamente per trasmettere questo insegnamento, per proporre a tutti gli uomini di buona volontà il solo rimedio valevole a guarire tutte le loro miserie. Noi siamo in grado ora di comprendere anche la differenza fondamentale che vi è tra la fratellanza, praticata da un’organizzazione caritatevole, che effonde i suoi sforzi a livello delle conseguenze della sofferenza, e la fratellanza concepita dalla Società Teosofica, che cerca invece di risalire alle cause della sofferenza e di mostrare agli uomini che esiste una felicità durevole, stabile, non soggetta a mutamenti, la cui forza inesauribile si trova nell’uomo, nella conoscenza della sua vera natura, nella presa di coscienza del suo Spirituale.
Una delle tre qualità inerenti al Sé Spirituale è ananda, la beatitudine, la felicità. Il Sé Spirituale è felicità, la Sua natura essenziale è felicità. Quando l’uomo, per mezzo della pratica dello yoga, ha cessato di identificarsi con i suoi veicoli inferiori, quando ha completamente posto termine all’agitazione della sua mente, agitazione che oscura la manifestazione del Sé Superiore, allora ci dice Patanjali:

… egli è fondato nella sua natura essenziale … “ (I-3)

che è felicità, e questa felicità, essendo l’espressione della natura stessa del suo Sé, è stabile, durevole e autosufficiente.
Non dobbiamo tuttavia confondere questa felicità, questa pace a cui si perviene quando ci si è liberati dalla schiavitù dei klesa, con quella che possiamo provare, a volte anche per periodi abbastanza lunghi, quando le circostanze ci sono favorevoli o almeno relativamente favorevoli. I klesa si manifestano nelle nostre vite in diversi modi. Nella loro manifestazione più grossolana essi sono, secondo un’espressione di Patanjali, sotto una forma “estesa” e la sofferenza, l’angoscia, il desiderio più violento sono costantemente visibili. Ma essi possono manifestarsi anche in maniera “alternata”, vale a dire che possono essere talvolta attivi e talvolta inattivi. Tuttavia un klesa, momentaneamente inattivo, non è un klesa dominato e nemmeno attenuato, ma è semplicemente un klesa che non ha in quel momento l’occasione di manifestarsi, ed è questo ciò che avviene, nella vita di un uomo, in quei periodi che definiamo felici.
L’influenza dei klesa va progressivamente diminuendo, fino a pervenire alla forma “attenuata”, ed è quello che avviene nel caso di un aspirante che, avendo compreso mentalmente la filosofia dello yoga, abbia iniziato ad assoggettarsi alle pratiche dello yoga preliminare. La pratica dello yoga propriamente detto, vale a dire la meditazione, riesce a ridurre i klesa allo stato “dormiente”, stato nel quale essi non hanno più potere apparente sullo yogin ma, appunto, dormono in lui, ossia dimorano in lui allo stato di seme e, possiamo immaginare, solo una circostanza particolarmente eccezionale può ancora risvegliarli. Quando lo yogin raggiungerà la Liberazione, allora li potremo considerare le radici dei klesa vuote di ogni contenuto, come semi privati di ogni potere germinativo, e che in nessun caso possono risvegliarsi.
Così l’uomo, che vive ignorando completamente la sua natura Divina, identificato con il suo io personale e dipendente per la sua felicità o infelicità dalle circostanze esteriori, è sotto il dominio dei klesa, sia nella loro forma estesa che alternata. Il primo lavoro da compiersi quindi è quello di prendere coscienza di questo fatto, perché una tale presa di coscienza, che avviene prima ancora di intraprendere una precisa disciplina, fa diminuire il potere dei klesa, e questo è anche il primo passo sul cammino della loro attenuazione.
Quando entriamo in contatto per la prima volta con l’insegnamento teosofico, la nostra vita è pervasa da un senso nuovo che provoca in generale un periodo di entusiasmo, di luce, una visione di felicità. Questo significa che la forma più grossolana dell’illusione nella quale vivevamo è stata dissipata. Ma se ci fermassimo qui, senza fare alcuno sforzo per una comprensione più profonda, capace di modificare praticamente la nostra vita, ripiomberemmo, più o meno rapidamente, nell’oscurità, nella sofferenza, nei nostri problemi: è questa una forma più sottile dei klesa, che ci influenza e che dobbiamo di nuovo comprendere. Le illusioni, nelle quali noi siamo racchiusi, sono come le molte mura concentriche di una prigione. Quando abbiamo demolito la prima muraglia proviamo una grande sensazione di libertà ma, subito dopo, scopriamo che vi è un altro muro che provoca un nuovo senso di soffocamento; muro che dobbiamo ancora demolire e così di seguito; però non indefinitamente, ma solo fino a che non sarà stato estirpato l’ultimo dei klesa, solo fino a che non avremo raggiunto la presa di Coscienza del Sé, la realizzazione della nostra natura Divina.
Si potrebbe pensare che fra il momento in cui l’uomo prende coscienza della precarietà di una felicità proveniente dalle circostanze esteriori ed il momento in cui realizza la presa di coscienza del Sé, trascorra un lungo periodo di tempo contrassegnato di aridità e da un intristimento della vita; periodo durante il quale egli non può più godere delle felicità del mondo mentre, nello stesso tempo, non è ancora in grado di essere influenzato appieno dalla felicità interiore. Pensare in tal modo sarebbe un mal intendere la filosofia dello yoga. Non è mai stato detto che l’aspirante yogin debba rifiutare le condizioni felici della sua esistenza, ma gli viene invece chiesto di prendere coscienza del loro carattere effimero, il che è tutt’altra cosa. Noi sappiamo che una rosa vive solo qualche giorno e, tuttavia, questo non ci impedisce di gioire della sua bellezza. La filosofia dello yoga non è una filosofia ascetica e non rifiuta le gioie che possono derivarci dalle diverse forme assunte dalla vita.
È vero invece che attraverso di esse l’uomo comincia a comprendere che tali soddisfazioni sono solo temporanee e, tuttavia, può continuare ad apprezzarle, pur essendo disposto a vederne la fine o a vederle mutarsi in altre circostanze meno piacevoli o addirittura penose. Inoltre occorre sapere che se è necessario essere pervenuti a tale stadio, ove non vi è più la minima identificazione con la personalità e ci si trova stabiliti in modo definitivo e irreversibile nella nostra natura essenziale così da poter attingere senza interruzione alla sorgente interiore della felicità, è altrettanto vero che fin dall’inizio del nostro cammino sul sentiero dello yoga preliminare, proprio perché cominciamo a ricercare all’interno di noi stessi, avremo degli squarci di luce, avremo dei contatti, sia pur brevi, con questa sorgente interiore, e tali prese di coscienza compenseranno largamente le felicità effimere nate dall’illusione nella quale viviamo.
Occorre però fare il primo passo. Questo primo passo consiste nel prendere coscienza delle cause di ogni nostra sofferenza e, risalendo la serie dei klesa, prendere coscienza del nostro attaccamento alla vita, delle nostre attrazioni e repulsioni, del senso dell’io legato all’illusione della separatività e, soprattutto, di quella ignoranza della nostra vera natura nella quale siamo sprofondati. Ramdas diceva:
“La grande malattia dell’uomo è l’ignoranza. Se egli ne guarisce, allora guarirà da tutte le altre malattie; allora vedrà in sé la Luce di Dio e sarà per sempre libero da quelle catene del desiderio che l’hanno tenuto in schiavitù e nella miseria”.
Per guarire da questa malattia, Patanjali ci indica il rimedio, e questo rimedio è quello yoga preliminare che sarà l’argomento del prossimo capitolo.

tratto da “Avviamento Allo Studio Dello Yoga” di Danielle Audoin – Edizioni Teosofiche Italiane

Il presente libro ha avuto origine da uno dei tanti corsi che Danielle Audoin ha tenuto presso la sede della Società Teosofica a Parigi.

Libri di Danielle Audoin consigliati:
Une approche du yoga - Editore Adyar Gennaio 2007
Connais-toi toi-meme. a la lumierede la theosophie - Editore Adyar Giugno 2004

Alcuni Libri consigliati delle Edizioni Teosofiche Italiane:

La scienza dello Yoga di I.K.Taimni
Raja Yoga e occultismo di H.P.Blavatsky
Kundalini di G.S.Arundale
Ai piedi del Maestro di J.Krishnamurti
La Luce sul Sentiero di M.Collins
La Voce del Silenzio di B.P.Blavatsky
La filosofia esoterica dell’India di J.C.Chatterji