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626. Nama-Rupa di René Guénon

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Si sa che nella tradizione indù, l’individualità è considerata come costituita dall’unione di due elementi, o più esattamente di due insieme di elementi, che sono rispettivamente indicati dai termini nama e rupa, che significano letteralmente “nome” e “forma”, e sono generalmente riuniti nell’espressione composta nama-rupa che abbraccia così l’intera individualità. Nama corrisponde all’aspetto “essenziale” di questa individualità, e rupa all’aspetto “sostanziale”; si tratta dunque pressappoco degli equivalenti dell’eidos e della yle di Aristotele, o di ciò che gli scolastici hanno chiamato “forma” e “materia”; qui bisogna fare attenzione ad una imperfezione piuttosto incresciosa della terminologia occidentale: la “forma”, in effetti, equivale allora a nama, laddove, quando si prende la stessa parola nel suo senso abituale, è al contrario rupa che si è obbligati a tradurre con “forma”. Dato poi che il termine “materia” presenta, per vari motivi già in altre occasioni esaminati e su cui qui non ci soffermiamo, diversi inconvenienti, troviamo preferibile lo impiego dei termini “essenza” e “sostanza”, presi naturalmente nel senso relativo in cui sono suscettibili di applicazione ad una individualità.
Da un altro punto di vista leggermente diverso, nama corrisponde anche alla parte sottile dell’individualità, e rupa alla sua parte corporea o sensibile; del resto, questa distinzione, in fondo, coincide con la precedente, poiché sono proprio queste due parti sottile e corporea che, nell’insieme dell’individualità, giocano il ruolo di “essenza” e di “sostanza” l’una in rapporto all’altra. In ogni caso, quando l’essere è affrancato dalla condizione individuale, si può dire che è, per ciò stesso, “al di là del nome e della forma”, poiché questi due termini complementari sono propriamente costitutivi dell’individualità in quanto tale; è chiaro che si tratta qui dell’essere che è passato ad uno stato sovra-individuale, poiché, in un altro stato individuale, dunque ancora “formale” egli ritroverebbe necessariamente l’equivalente di nama e di rupa, benché la forma non sia allora più corporea come era nello stato umano. Peraltro, bisogna anche dire che nama è suscettibile di una certa trasposizione in cui non è più il corrispettivo di rupa; ciò appare soprattutto quando si dice che ciò che sussiste quando un uomo muore è nama (Brihad-Aranyaka Upanisad, III, 2, 12). È vero che si potrebbe pensare in un primo momento che si tratti di prolungamenti extra-corporei dell’individualità umana; questo modo di vedere è del resto in certo senso accettabile, qualora rupa si identifichi al corpo; non vi sarebbe allora una vera trasposizione, ma la parte sottile dell’individualità continuerebbe semplicemente ad essere indicata come nama dopo la sparizione della parte corporea. Potrebbe ancora essere così quando questo nama è detto essere “senza fine”, nel senso che la sua fine si collega analogicamente col suo inizio, come si vede soprattutto nell’esempio del ciclo annuale (samvatsara). Tuttavia, è evidente che non è più così quando si precisa che l’essere che sussiste come nama è passato nel mondo dei deva, cioè ad uno stato “angelico” o sovra-individuale; essendo un tale stato “informale”, non si può più parlare di rupa, mentre nama è trasposto ad un senso superiore, cosa che è possibile in virtù del carattere sovra-sensibile che vi è unito anche nella sua accezione ordinaria e individuale; in questo caso, l’essere è “al di là della forma” ma non “al di là del nome” come se fosse pervenuto allo stato incondizionato, e non soltanto ad uno stato che, per quanto elevato possa essere, appartiene ancora al campo dell’esistenza manifesta. Possiamo rilevare che è senza dubbio questo che vuol dire, nelle dottrine teologiche occidentali, la concezione secondo la quale la natura angelica (devata) è una “forma” pura (il che si potrebbe rendere in sanscrito con suddha-nama), cioè non unita ad una “materia”; in effetti, tenendo conto delle particolarità del linguaggio scolastico che abbiamo segnalato in precedenza, ciò porta esattamente a dire che si tratta di quello che abbiamo chiamato uno stato “informale”.
In questa trasposizione, nama equivale ancora al greco eidos, ma inteso questa volta in senso platonico piuttosto che aristotelico: è l’”idea”, non nell’accezione psicologica e “soggettiva” che gli danno i moderni, ma nel senso trascendente di “archetipo”, cioè come realtà del “mondo intellegibile”, di cui il “mondo sensibile” non offre che un riflesso o un’ombra (Si ricordi qui il simbolismo della caverna di Platone); del resto si può, a questo riguardo, prendere il “mondo sensibile” come rappresentante simbolicamente l’intero campo della manifestazione formale, dato che il “mondo intellegibile” è quello della manifestazione informale, cioè il mondo dei deva. È in tal maniera che bisogna intendere l’applicazione del termine nama al modello “ideale” che l’artista deve innanzitutto contemplare interiormente, e in seguito realizzare la sua opera sotto una forma sensibile, che è propriamente rupa, di modo che quando l’”idea” si è così incorporata”, l’opera d’arte può essere vista, allo stesso modo dell’essere individuale, come una combinazione di nama e di rupa. Vi è dunque, per così dire, una “discesa” (avatarana) dell’”idea” nel campo formale; il che non comporta, beninteso che essa si riflette in una certa forma sensibile, che da essa si riflette in una certa forma sensibile, che da essa procede e alla quale essa dà in qualche modo la vita; si potrebbe anche dire, a questo proposito, che l’”idea” in se stessa corrisponde allo “spirito”, e che il suo aspetto “incorporeo” corrisponde all’”anima”. L’esempio dell’opera d’arte permette di comprendere in modo più preciso la vera natura del rapporto che esiste tra l’”archetipo” e l’individuo, e, in conseguenza, quello dei due sensi del termine nama, a seconda che sia applicato nel campo “angelico” o nel campo umano, cioè a seconda che esso indichi, da una parte, il principio informale o “spirituale” dell’essere, che può così chiamarsi la sua “essenza” pura, e, dall’altra, la parte sottile dell’individualità, che non è “essenza” se non in senso affatto relativo ed in rapporto alla sua parte corporea, ma che, a questo titolo, rappresenta l’”essenza” nel campo individuale e può dunque esservi vista come un riflesso della vera “essenza” trascendente.
Resta ora da spiegare il simbolismo inerente ai termini “nama” e “rupa”, e che permette di passare dal loro senso letterale, cioè dall’accezione comune delle parole “nome” e “forma”, alle applicazioni che ora vedremo. La relazione può apparire a prima vista più evidente per la “forma” che per il “nome”, forse perché, per quanto concerne questa “forma”, non usciamo dall’ordine sensibile, al quale si riferisce direttamente il senso ordinario del termine; o per lo meno è così quando si tratta dell’esistenza umana; e, se si trattasse di un altro stato individuale, sarebbe sufficiente considerare che deve esservi necessariamente una certa corrispondenza tra la costituzione dell’essere manifestato in questo stato e quella dell’individuo umano, dato che si tratta sempre di uno stato “formale”. D’altra parte, per ben comprendere il vero significato di nama, bisognerà far ricorso a delle nozioni meno comuni, e bisogna innanzitutto ricordare che, come abbiamo già spiegato, il “nome” di un essere, anche inteso letteralmente, è effettivamente una espressione della sua “essenza”; questo “nome” è del resto anche un “numero” in senso pitagorico e kabbalistico, e si sa che, anche dal semplice punto di vista della derivazione storica, il concetto di “idea” platonica, di cui abbiamo parlato, si ricollega strettamente a quello del “numero” pitagorico.
Ma non è tutto: bisogna anche sottolineare che il “nome”, in senso letterale, è propriamente un suono, e dunque appartiene all’ordine auditivo, mentre la “forma” appartiene all’ordine visivo; qui l’”occhio” (o la vista) è dunque preso come simbolo dell’esperienza sensibile, mentre l’”orecchio” (o udito) è preso come simbolo dell’intelletto “angelico” o intuitivo (Cfr. Brihad-Aranyaka Upanisad, I, 4, 17); ed è pure così che la “rivelazione”, o l’intuizione diretta delle verità intellegibili, è rappresentata come un “udire” (da cui il significato tradizionale del termine sruti). Va da che, in se stessi, vista e udito si riferiscono egualmente al campo sensibile; ma, per trasposizione simbolica, quando essi sono posti in rapporto l’una con l’altro, si deve individuare tra loro una certa gerarchia, che risulta dall’ordine di sviluppo degli elementi, e in conseguenze delle qualità sensibili che rispettivamente vi si riferiscono: la qualità uditiva, dato che si rapporta all’etere che è il primo degli elementi, è maggiormente “primordiale” che la qualità visiva, che si riferisce al fuoco; e si vede che, in questo modo, il significato del termine nama si lega in maniera diretta ad idee tradizionali che hanno nella dottrina indù un carattere davvero fondamentale, quella della “primordialità del suono” e quella della “perpetuità del Veda”.

René Guénon
tratto da Studi sull’induismo
Basaia Editore 1983
Traduzione di Antonino Anzaldi

Dello stesso autore:
Autorità Spirituale e Potere Temporale – Adelphi 2014
Considerazioni sull’Iniziazione - Luni
La Crisi del Mondo Moderno - Mediterranee
L’esoterismo di Dante - Adelphi
Forme Tradizionali e Cicli Cosmici - Mediterranee
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