gototopgototop

807. La Via di Sankara

Lunedì 25 Dicembre 2017 00:00 Rosario Castello
Stampa

Sankaracarya (“Maestro Sankara”) è l’appellativo dato al codificatore dell’advaitavedanta e a tutti i Maestri successivi che incarnando il suo pensiero-insegnamento si impegnarono a dirigere i matha (monastero, luogo sacro) da lui fondati, continuando la sua opera.
I matha fondati da Sankara sono cinque: Advaitamatha (a Dvaraka), Jyotirmatha (a Badarinatha), Govardhanamatha (a Puri), Srngerimatha (a Srngeri), Saradamatha (a Kanci).
Sankara o Samkara è un appellativo di Siva-Rudra che significa fausto, benevolo, datore di gioia e prosperità.
Sankara, il codificatore dell’advaitavedanta, visse tra il 788 e l’820: ha dato il darsana metafisico che trascende il dualismo. Fu discepolo di Govindapada discepolo di Gaudapada.
Morì presso uno dei numerosi asram da lui fondati, quello nell’India del Nord, nell’820 d.C..
Svolse un Lavoro instancabile, compilò importanti bhasya (commentari): alla prasthanatraya (Upanisad, Bhagavadgita, Brahmasutra), ma anche numerose opere sia sugli Insegnamenti sia sulla disciplina, per pervenire alla realizzazione advaita.
Sankara espose il sutra, divenuto famoso, davanti a Gaudapada:

brahma satyam jaganmithya jivo brahmaiva naparah
“il Brahman è la realtà, il mondo è apparenza; il jiva non è altri che il Brahman stesso”.

Si tratta di un sutra emblematico che riassume tutta l’essenza dell’advaita.
Alcuni suoi discepoli diretti sono stati alcuni advaitin che hanno compilato opere notevoli: Padmapada, Hastamalaka, Suresvara, Totakacarya.
Sankara fu difensore del sanatanadharma, la Dottrina della pura Tradizione vedica, ma nello stesso tempo un grande impareggiabile riformatore spirituale.
Istituì dieci dasanamin (ordini monastici) perché la pratica spirituale non subisse degenerazioni.
Sankara puntò come fondamentale l’aspetto metafisico riguardante l’Uno-senza-secondo, un insegnamento già presente nelle Upanisad ma da lui evidenziato come mai era stato fatto.
Commentò anche l’Atmabodha, il Vivekacudamani, l’Aparoksanubhuti, l’Upadesasahasri e la Mandukyakarika di Gaudapada.

Quanto da lui insegnato e diffuso non rivaleggia con le altre scuole ortodosse ed eterodosse, ma le illumina dall’interno quando mostra che è una Verità unica il polo di tutto l’insieme. Ha attraversato tutta l’India, da Ceylon all’Himalaya, stimolando i migliori eruditi della sua epoca.

Sosteneva che solo l’Assoluto (parabrahman) è “reale” e che non può essere definito, perché facendolo lo si limiterebbe, però può essere sperimentato. Da questa realtà ineffabile è “PROMANATA” ogni cosa, l’intero Cosmo, compresi tutti gli ego (aham) ma non il (atman). Quindi si può dire che l’emanazione dell’Assoluto è Maya (“illusione” ma non “allucinazione”). Maya, in sostanza è l’errata interpretazione di “qualcosa” di esistente. Non si tratta di credere a qualcosa che non esiste. L’esperienza che offre la Maya è quella di far scoprire, a chi attento a questo genere di cose (nella ricerca spirituale), che esiste una “realtà relativa”, o meglio una gerarchia di “realtà relative”. Tale scoperta stimola e tende ad espandere la coscienza, a risvegliarsi a livelli sempre maggiori, mano mano aumenta la profondità di osservazione.

Un bellissimo dipinto, che sul piano oggettivo cattura la nostra sensibilità, mano mano che lo contempliamo, lo osserviamo, lo approfondiamo, ci fa intravedere, esperire, su quel dipinto, livelli gerarchici di realtà, dalle semplici forme espresse sulla tela, alla magia dei colori, delle varie profondità presentate dalle varie ombre, alla percezione di una realtà infinitesimale fatta di atomi, particelle subatomiche, compresi i misteriosi neutrini. L’esperienza di Maya, nell’esperienza profonda di un serio ed autentico sadhaka, rivela che esiste una realtà parallela, spirituale inosservabile ma intuibile dalla buddhi risvegliata.

Nessuno può dire che la pittura non è reale perché il dipinto è di fronte all’osservatore. Essa è reale, è vero, ma diviene irreale in livelli progressivamente più reali (vari livelli di coscienza ed essere). Ogni ente planetario ha un edificio interiore fatto di “piani”, “livelli”, responsabili della radicale trasformazione della percezione della realtà.
Quando percepisci la Realtà Ultima (il parabrahman) l’universo in cui si vive diviene del tutto “irreale”. Il mondo fenomenico è dovuto ad una scala dell’osservazione che determina la percezione.
Sankara parla anche del “Silenzio metafisico” perché le Upanisad affermano che Brahman (l’Assoluto) è Silenzio e il Realizzato (Muni) è Silenzio. Brahman è pura coscienza, è lo stato in cui la coscienza riposando in se stessa non manifesta movimento-vibrazioni-suoni. Una sadhana vera non può che portare ad un risultato di questo tipo: il Silenzio Metafisico. Il Silenzio è la Via ma anche la fine del sentiero realizzativo. Il Muni rifugge dai vortici delle forze prodotte dai centri vitali altrimenti gli infiniti suoni condizionanti lo imprigionano.
Finchè un sadhaka risponde ai vari suoni di Maya non può esserci Liberazione.
Il Realizzato-Liberato, libero (dal divenire-samsara) ormai dagli incantamenti di Maya (illusione), può uscire ed entrare in piena e assoluta libertà dal campo della realtà materiale e sperimentare-godere la Realtà spirituale.
Sankara, in qualità di sommo Istruttore (acarya), ha saputo indicare sul sentiero realizzativo il fine vero e supremo dell’esistenza umana. Egli è stato un trasmettitore della sruti.