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865. Chi non vede come stanno le cose (nella spiritualità)

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L’ignoranza (avidya) è un serio problema sia per il materialista sia per lo spiritualista. È un grande problema sia per il profano, cioè l’uomo comune ordinario che pensa solo alla vita di tutti i giorni e ai vari bisogni da soddisfare, sia per chi ha intrapreso un percorso spirituale (una sadhana).

avidya: non-conoscenza”, ignoranza metafisica; ignoranza che verte sulla Realtà o noumeno, ovvero sulla natura dell’Essere. L’avidya è un concetto chiave dell’advaitavedanta. Possiede queste caratteristiche: è senza inizio (anadi); viene eliminata solo dalla conoscenza (jnananivartya); è indescrivibile (anirvacaniya): è dotata di due poteri: proiettivo (viksepasakti) e velante (avaranasakti). L’avidya è l’aspetto caratteristico dell’individualità, mentre la maya rappresenta l’apparenza-fenomeno in riguardo all’universo manifestato. È anche una delle cause di afflizione (klesa) nel rajayoga di Patanjali. Cfr. Vivekacudamani.

Gruppo Kevala
Glossario Sanscrito (Asram Vidya)

 

Si può affermare tranquillamente che l’ignoranza metafisica è un problema per la maggior parte degli esseri umani. Le varie forme di sofferenza, di afflizioni (i Klesa) sono dovuti all’ignoranza (avidya) che sembra coltivarle come fosse un “campo”.

klesa:afflizione”; tormento, turbamento (tamisra); sofferenza di carattere esistenziale dovuta all’ignoranza della propria natura di Essere-Coscienza-Beatitudine assoluti (saccidananda). Secondo Patanjali le forme originarie di klesa sono le seguenti: avidya (ignoranza metafisica), asmita (senso dell’individualità), raga (attaccamento-attrazione), dvesa (avversione-repulsione), abhinivesa (sete di esistenza e di esperienza). L’avidya è la causa dei klesa. Cfr. Yogadarsana.

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Glossario Sanscrito (Asram Vidya)

 

È l’ego (ahamkara) il coltivatore di una o più afflizioni, se non tutte a volte. Coltiva le afflizione mediante il suo “senso di io-sono” (asmita). Quella sorta di errata identificazione che attua con tutte le cose, di attaccamento con cose, persone ed eventi. L’ego (ahamkara) vive principalmente di attrazioni e repulsioni senza vedere-comprendere come le cose stanno veramente.

ahamkara:ciò che fa l’io”, o il “senso dell’io”. Principio del senso dell’io separativo. Quando il jiva, mediante il manas, percepisce una sensazione che poi la buddhi determina, l’ahamkara afferma: sono io che percepisco.
L’ahamkara, l’io empirico o l’ego è ciò che agisce, che sperimenta, che trae i frutti di questa sperimentazione, ciò che produce azione, armonica o disarmonica. È un “personaggio” sospinto dai guna a fare esperienze di varia natura; trascinato dal frutto delle proprie azioni (karma), è soggetto alla trasmigrazione, alle nascite e alle morti. Rappresenta una delle quattro facoltà o funzioni dell’organo interno (antahkarana) che sono: buddhi, ahamkara, citta e manas. L’ahamkara, con i suoi veicoli-corpi (grossolano, vitale e mentale), è aleatorio, è movimento: “Esso nasce e muore e non è realmente mai”. (Platone, Timeo, 28 a, 3-4). Anche ahamkartr. Cfr. Vivekacudamani.

asmita: la natura o condizione del puro “[io] sono” (asmi); il puro senso di essere; il senso spontaneo dell’”io sono” astratto dalla identificazione corporea e mentale. Esprime la pura autocoscienza jivaica e definisce uno stadio del samadhi. In quanto suscettibile di identificazione con l’oggetto-veicolo, ossia il “questo” (idam), è prodotto e causa di karman e costituisce, come tale, una delle cause di afflizione (klesa) nel rajayoga di Patanjali.

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Glossario Sanscrito (Asram Vidya)

 

L’ignoranza fa vedere “lucciole per lanterne”, “la corda per serpente”, “per oro ciò che luccica”, ma fa anche ritenere “il mortale immortale”, “il limitato illimitato”, “il non-” (anatman) “il Sé” (atman): questi effetti dell’ignoranza accadono ogni giorno, in tutte le circostanze umane e, i più, non se ne rendono nemmeno conto, neanche quella maggior parte di coloro che sostengono di essere dediti ad una giornaliera pratica spirituale. Vi incorrono anche molti di coloro che seguono, o sono convinti di seguire, gli insegnamenti di un Maestro a cui si riferiscono o hanno “incontrato” (“conoscere” un Maestro è un’altra cosa; conoscerLo significherebbe che il Maestro si è fatto conoscere, che ha reputato l’idoneità – per essere conosciuto veramente – matura ai suoi veri Insegnamenti, alla comprensione e alla pratica di essi, compreso il metodo che, senza indugio, lavora sull’estinzione dell’ignoranza metafisica, dando la facoltà di saper riconoscere il vero dal falso, il bianco dal nero, le lucciole dalle lanterne, ecc.; la capacità di saper evitare errori grossolani come il fraintendere una errata percezione-sentire in una realtà superiore trascendentale; lo scambiare dei semplici flussi di prana-saktidella realtà sottile individuale o universale – , più vibranti del solito nel divenire fenomenico, in realtà trascendentali del Turya, il Quarto stato, il Brahman nirguna del Vedanta).

Tutti gli errori, i fraintendimenti, le disattenzioni dovuti all’ignoranza metafisica (avidya) non considerata, non trattata all’interno della propria sadhana, creano profondi disagi interiori di cui difficilmente il soggetto (sadhaka) riesce a rendersi conto; creano un legame profondo, un karman di cui è bene liberarsi, non continuare a protrarlo.
Molti spiritualisti, molti “camminatori spirituali” (sadhaka) pur seguendo insegnamenti e indicazioni validi non dispongono per davvero di un metodo idoneo, per lavorare alle radici della propria ignoranza metafisica (i più sono indulgenti, clementi, accondiscendenti nei confronti di quanto andrebbe invece estirpato in sé stessi).
I più mantengono, all’interno del proprio percorso spirituale, le stesse modalità utilizzate nella loro esistenza profana, motivo per il quale vengono commessi molti errori di valutazione, anche in presenza di un contemporaneo buon lavoro generale, ma senza rendersene conto realmente. Questo fatto spesso fa entrare in conflitto con altri “fratelli” di percorso che non vedono le cose come loro, svilendo il senso superiore del percorso stesso che vorrebbe vedere attuato il tanto proclamato “senso di unità”.

L’ignoranza metafisica spesso permette a molti “ciechi” di seguire un “cieco che fa finta di vedere ciò che gli altri non possono vedere”, creando legami spirituali condizionati e crudeli, spinti inesorabilmente dalla forza di gravità agente sul samsara.

Si imbattono in simili errori anche sadhaka molto avanzati ai quali sono sfuggiti, lungo il percorso fatto, alcuni elementi non considerati importanti e quindi non trattati nel lavoro di svincolamento, cioè in quegli esercizi-pratica di base così necessari da praticare scrupolosamente anche se considerati noiosi. La pratica svolta sull’ignoranza metafisica è l’unica che è in grado di tirar fuori dalla condizione di cecità spirituale, dallo stato di "anima condizionata".
Se si permane nel dominio dell’ignoranza metafisica, anche se si sono fatti grandi progressi generali e ci si è posizionati ad un elevato livello coscienziale, le conseguenze possono risultare imperdonabili al momento opportuno delle prove “iniziatiche”.

Il vero sadhaka è colui che sin dai primi passi sul sentiero dovrebbe chiedersi come sciogliere le catene dall’ignoranza, per guarire definitivamente dall’incoscienza, senza più cadere sugli abbagli disseminati ovunque nel mondo del divenire (il mondo fenomenico), che fanno credere in ciò che non è.
L’ignoranza e la conseguente cecità non sono altro che condizioni di uno stato di prigionia invisibile in cui possono scorrere le più ingannevoli “apparenze” scambiate per realtà.
Finché il sadhaka è soggetto all’inganno significa che non si è ancora liberato dell’ignoranza che lo fa errare, perché essa è ancora presente, pur mutando il suo volto come un camaleonte.
È, comunque, un’operazione difficile quella di liberarsi “fuori tempo” dell’ignoranza metafisica, ma cosa possibilissima. Essa richiede una specie di disapprendere ciò che si è creduto di aver appreso per vero, per conoscenza della realtà. Purtroppo spesso bisogna insistere molto, con grande tenacia perché si scivola facilmente e continuamente al “punto di partenza”, e se si persevera, nonostante tutto, ad un dato momento ci si ritrova come ad un individuo desto rispetto ad uno dormiente.
Ecco perché un metodo è necessario, una pratica incessante è necessaria, un’attenzione elevata è necessaria, una consapevole vigilanza è necessaria come quella di chi è sempre pronto per qualsiasi tipo di emergenza. Un’ambizione come quella spirituale, se sincera e autentica, richiede necessariamente delle regole-gradini da seguire, e non bisogna mai dimenticare, proprio mai che qualsiasi pensiero, parola e azione, come qualsiasi evento, hanno profondi legami che collegano ai pensieri, alle parole e alle azioni di tutte le altre persone, perché anche se l’ascesa è in direzione della trascendenza assoluta, la partenza e il percorso si svolgono nel contesto umano del relativo, del divenire, pur pensando al divino.
Un errore individuale si trasforma in errore collettivo, o meglio in un problema collettivo, anche se non percepito; un inganno esercitato consapevolmente o meno segue le stesse conseguenze karmiche; una convinzione vissuta in buona fede ma che produce volente o nolente una condizione impropria ad altri, non in grado di rendersene conto, segue le stesse inesorabili regole universali.

Uno dei più sicuri metodi ma anche dei più difficili è quello in cui il sadhaka si chiede per l’appunto: “ko ‘ham?”, contemporaneamente a molte pratiche, di natura yogica, che coinvolgono il corpo fisico grossolano (sthulasarira), il corpo sottile (lingasarira), il corpo causale (karanasarira) per creare quella difficile possibilità (che molti immaginano facile alla new age) che apre al “Quarto” stato (turiya), vera e unica meta spirituale che nulla ha a che fare con il mondo fenomenico nel mondo del divenire.

ko ‘ham: “chi [sono] io?”, metodo di investigazione (vicara) esposto nell’Aparoksanubhuti di Sankara. Non si tratta di un procedimento verbale o mentale rappresentativo, ma di un processo esclusivamente coscienziale di autopenetrazione e totale assorbimento nel più profondo senso di essere, alla radice stessa dell’io in quanto coscienza, astraendosi da qualsiasi limitazione, relazione e identificazione. È lo stesso percorso indicato da Ramana Maharsi come metodo autorealizzativo diretto.

Turiya: il “Quarto”, il quarto Stato (caturtha). È una parola del Rg Veda che significa “quarto” e nel Vedanta viene indicato come il Brahman nirguna. Quarto come riferimento a ciò che è al di là dai tre stati dell’Essere-Isvara. È una designazione simbolica per denotare che Esso trascende l’intera manifestazione, per cui rappresenta la Realtà ultimativa oltre la quale non si può andare. E se si dice che oltre al Quarto ci sia una quinta realtà più alta dovremo ancora postulare una sesta realtà che dia ragion d’essere al precedente quarto stato e così all’infinito. Turya, nella sua valenza conoscitiva, rappresenta il fondamento metafisico che dà Essere a tutto ciò che è in divenire, ciò comporta l’assimilazione di Turiya al Brahman nirguna. Nella Mandukya Upanisad (VII) viene così presentato: “Non è cosciente (conoscente) del [mondo] interno (taijasa), non è cosciente di quello esterno (visva); né è cosciente di entrambi; non è un’unità di coscienza (na prajnanaghanam = lo stato di sonno profondo = prajna) poiché non è cosciente (di cose separate, differenziate) né non cosciente; non è percepibile [con i sensi], è non agente, incomprensibile, indefinibile, impensabile, indescrivibile [col pensiero]; esso è la sola essenza [quale fondamento] dell’atman; senza alcuna traccia di manifestazione; è pacificato, benefico, è non duale. [I saggi] lo considerano il Quarto (caturtha). Questo è l’atman e come tale deve essere conosciuto”. Per una maggiore dilucidazione del Turya-Brahman riportiamo un passo del Commento di Sankara alla Brhadaranyaka Upanisad (2.3.6): “[Se ci si chiedesse] in che modo, mediante queste due espressioni “non è questo, non è questo”, si intende descrivere la “Verità delle verità”, si risponde: attraverso la eliminazione di tutte le qualificazioni dovute alle sovrapposizioni limitanti, [si perviene a Quello, il Brahman] nel quale non vi è più nessuna qualificazione, né specie, né attributo: infatti la parola può applicarsi solo grazie a tali mezzi, mentre del Brahman non esiste alcuna qualificazione. Perciò Quello non può essere definito come: “è questo”, come nel linguaggio corrente si può indicare “là sta pascolando una mucca con le corna bianche”. Il Brahman può essere indicato [indirettamente] solo tramite il nome, la forma e l’attività che gli vengono sovrapposti, per mezzo di espressioni come le seguenti e altre: “Brahman è conoscenza e beatitudine” (Br. 3.9.28), “… consiste proprio in una unità assoluta di pura coscienza” (Br. 2.4.12), o [direttamente] per mezzo di termini come Brahman o atman. Se invece si intendesse descrivere proprio la sua autentica natura, la quale trascende tutte le qualificazioni determinate dalle sovrapposizioni, allora non si può indicare in nessun modo. In tal caso vi è solo questo metodo, ossia la designazione nei termini: “non è questo, non è questo” (neti neti; neti = na + iti), attraverso la quale vengono via via eliminate tutte le qualificazioni che potrebbero venirgli attribuite. E queste due parole negative (na) [associate alla parola iti] intendono suggerire la ripetizione [della negazione] estendendola [alla totalità delle qualificazioni] in maniera da eliminare qualsiasi cosa [come attributo, ecc.] che si incontri … “non esiste alcuna altra descrizione migliore. Perciò solo questa è la [possibile] descrizione del Brahman: [cioè] neti neti”. Cfr. Mandukyakarika.

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Glossario Sanscrito (Asram Vidya)

 

“Proprio come un seme è seminato nel terreno, così l’impronta di ogni esperienza viene impressa nella mente. Queste impronte di esperienze sono vive. Esse hanno il loro diretto potere di ricreare l’intera esperienza che le ha prodotte primariamente. Infatti ogni impressione cerca la ripetizione della corrispondente esperienza originale. Quindi il desiderio tende sempre a guadagnare forza se esso è soddisfatto. Questa è la vera natura del desiderio. Così, poiché l’impressione di una particolare esperienza o di un particolare esaudimento di un desiderio, diventa sempre più profondamente confermato da ogni successivo esaudimento dello stesso desiderio, quell’impressione comincia a svilupparsi in una definitiva tendenza della mente. Il desiderio perciò non è mai saziato dal suo esaudimento. Le predilezioni della mente sono proprio in attesa di essere stimolate. Non appena il desiderato oggetto è visto ancora una volta all’esterno, o se ne sente parlare, o anche soltanto se ne pensa, immediatamente il desiderio si ripresenta. Esso manifesta se stesso e stimola la mente ad andare all’esterno. Quando queste onde di pensiero fluiscono nella mente, l’immaginazione è chiamata in gioco per mostrare quanto dolce e desiderabile è l’oggetto e come seducenti sono le sue attrazioni. Nel momento in cui l’immaginazione viene così impegnata, questi pensieri si manifestano come una forte bramosia. Tali pensieri, con l’immaginazione che gioca su di essi, incatenano l’uomo. La sua totale identificazione con i vari stati d’animo della mente lo rendono schiavo dei desideri che operano dentro di essa. Così, quando è sentito lo stimolo, voi siete sospinti da esso. Anche l’aspetto della volontà dell’ego è legato al desiderio naturale della mente. L’uomo è così portato ad avventurarsi sull’intera materia e l’individuo è spinto all’azione per soddisfare il suo desiderio. Essendo soddisfatto il desiderio, il circolo vizioso è ancora una volta completato. Ancora una volta, essendo stata completata quell’esperienza, l’impressione incisa nella mente è diventata ancora più profonda. Questo è il circolo in cui l’essere umano è catturato. Egli è come un giocattolo, un fantoccio, un oggetto del gioco della mente che rifiuta ogni limitazione. La mente vuole essere piena di desideri e agitazioni, e non vuole essere controllata. A meno che essa non sia osservata e disciplinata giornalmente, l’uomo vivrà la sua vita come una bambola e terminerà la sua vita in schiavitù. La vasta maggioranza degli esseri umani sono solo spinti e travolti da ogni piccolo desiderio e impulso della mente. Essi non hanno alcuna libertà. La libertà individuale è solo un mito. Possono avere libertà di stampa, di parola, ma fintanto e finché gli uomini non hanno avuto il controllo sulle loro menti, sui loro desideri e impulsi, essi vivono praticamente in schiavitù e la loro libertà è soltanto un nome. Quando l’uomo ha una comprensione della mente, e scopre come essa agisce, allora sarà capace di afferrarla. Qui c’è uno degli aspetti più importanti della manifestazione della mente. Poiché il pensiero “ io“ è totalmente nella presa della mente, l’uomo è incapace di penetrare nel cuore del suo essere dove giace il centro della sua coscienza. Questa ineffabile esperienza di libertà viene negata dalla mente all’uomo precisamente nel modo che è stato detto”.

Swami Chidananda
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Barbara Biscotti, docente universitaria di Storia dei diritti dell’antichità all’Università di Milano-Bicocca, insegnante yoga e membro del Consiglio direttivo della YANI.

 

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