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869. La Repubblica delle stragi a cura di Salvatore Borsellino

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Presentiamo, di seguito, alcuni cenni del libro curato da Salvatore Borsellino La Repubblica delle Stragi (con la prefazione di Marco Travaglio), Edito da PaperFirst. Un libro a dir poco encomiabile. Si tratta di un libro che dovrebbe leggere la maggior parte degli italiani, per una presa di consapevolezza della verità che è stata rubata loro per decenni e che, nonostante tutto, in molti continuano a non voler vedere. Chissà perché. Un libro che abbiamo letto tutto d’un fiato perché tocca temi di particolare interesse per noi: fare dei complimenti sarebbe sminuire l’opera intrapresa per riuscire a intessere l’intero tessuto che mostra inequivocabilmente ciò che, come dicevamo, in molti si ostinano a non voler vedere, a non voler capire, a non voler riconoscere. Incapacità, vigliaccheria, indifferenza, egoismo, protezionismo dei propri interessi, malafede, complicità? Sta di fatto che, in queste pagine, tuonano le voci delle vittime innocenti non per stesse ma per quelle verità che vanno finalmente riconosciute e che potrebbe cambiare la cultura di un Paese afflitto dalla corruzione. Non conoscevamo gli otto autori che hanno contribuito alla stesura del libro ma a loro porgiamo un caloroso abbraccio, come quello di una sincera persona amica: Federica Fabbretti, Fabio Repici, Giovanni Spinosa, Antonella Beccaria, Peppino Lo Bianco, Nunzia Mormile e Marco Bertelli. A Salvatore Borsellino un grazie di cuore da italiano, per tutte le vittime, per l’Italia, per tutti quegli italiani che rappresentano ancora “i migliori” e per la “Verità”, il faro che è in grado di illuminare ancora nella notte buia in cui l’umanità sembra essere caduta.

Ci sembrano appropriate le parole utilizzate dal singolare Marco Travaglio (che stimiamo moltissimo per l’egregio lavoro che svolge con tutta la sua redazione) nella sua prefazione al Libro:
“(…) Girata l’ultima pagina, a tutti noi lettori viene una gran voglia di prendere una copia del La Repubblica delle stragi e di regalarla ai procuratori della Repubblica competenti, perché raccolgano e sviluppino i preziosi e documentati spunti che contiene. Ogni capitolo fa i nomi dei possibili mandanti e di altri eventuali complici dei crimini che hanno visto condannare soltanto gli esecutori materiali. Mandanti, complici ed esecutori equamente distribuiti fra i criminali professionisti (terroristi, extraparlamentari, uomini di Cosa nostra, di ‘ndrangheta e di camorra) e killer, suggeritori, consulenti e depistatori di Stato (…)”.

Appropriate sono anche le seguenti parole di Salvatore Borsellino nella premessa del libro:
“(…) Ma se l’assenza di giustizia potrebbe essere vista come un torto solo per noi familiari, la continua negazione della verità ha definito – e continuerà a definire – un vulnus di impareggiabile gravità per l’andamento democratico del nostro Paese, un Paese i cui importanti rappresentanti possono essere ricattati da chi di quel filo conosce consistenza e colori, un Paese in cui non potranno essere applicati quei contrappesi democratici riconosciuti e fortemente voluti dai nostri padri costituenti. Finché non verrà alla luce quel filo nascosto, la verità su ogni strage, sia essa di matrice mafiosa o terroristica, resterà sempre parziale, perché sarà indagata e studiata come un episodio a sé stante, con moventi – di natura praticamente inaccessibile – indipendenti e, qundi, indecifrabili (…)”.

il Centro Paradesha

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La Repubblica delle Stragi

Capitolo 1

“(…) La partenza di questa guerra durata sedici anni ha un nome. È quello di Michele Sindona, iscritto alla P2 di Licio Gelli (tessera 1612), che non era stato solo prima un banchiere (e poi bancarottiere) spregiudicato, ma fu anche uno dei finanziatori del golpe greco dei colonnelli e tra il 1971 e il 1972 aveva avuto un proprio ruolo in un tentato colpo di Stato di cui non volle parlare quando, arrestato negli Stati Uniti per il fallimento della Franklin Bank, gli inquirenti d’oltreoceano lo interrogarono.
Già una nota riservata contenuta nel suo fascicolo personale, datata 7 ottobre 1968, lo descrive «da diversi anni in contatto, grazie alla presentazione di Frank Sinatra, con finanzieri americani di Chicago e Las Vegas, i quali, avendo proventi illegittimi e non dichiarati al fisco americano,  si servono della sua competenza per collocare i loro capitali in Italia e in Europa», da personaggio attento, valutava tutto, compresa l’importanza del ruolo della stampa, anche quella di sinistra. Così, tramite il suo fidato genero, Piersandro Magnoni, faceva in modo di sostenere pure i giornali di quell’area per ingraziarsi socialisti, comunisti e perfino formazioni dell’extraparlamentarismo rosso, come nel caso di Lotta Continua, se ha ragione un appunto riservato del 7 febbraio 1973. Sta di fatto che, sul campo politico opposto, diede una mano al principe nero Junio Valerio Borghese, l’ex della Decima Mas e fondatore del Fronte Nazionale il cui nome si lega al tentato golpe della notte tra il 7 e l’8 dicembre 1970. In un periodo in cui Borghese se la passava male, «mutava campo d’azione divenendo presidente della Banca del Credito Commerciale e industriale (un incarico opportunamente lasciatogli da Sindona) ».
La Democrazia Cristiana o, meglio, le correnti democristiane riconducibili agli ambienti andreottiani rimanevano il suo milieu di riferimento. Nelle varie strutture bancarie dell’impero sindoni ano lavoravano esponenti del partito e della segreteria milanesi che poi sarebbero divenuti uno dei canali di comunicazione con Giulio Andreotti e punti di contatto con il Noto Servizio o Anello della Repubblica, un servizio segreto non istituzionale che operò in Italia per decenni (…)”.

“(…) Importante personaggio nella vita di Sindona e nelle sue relazioni a cavallo delle due coste dell’Atlantico era Joseph Miceli Crimi, «un personaggio che, per taluni episodi della sua vita e per le contraddizioni, le palesi reticenze e le furbesche allusioni […]. È apparso a dir poco sconcertante e certamente enigmatico, circa la sua vera attività e i propositi da lui perseguiti». Chirurgo estetico, legato alla famiglia Gambino e in odor di CIA (per quanto lui abbia sempre smentito), Miceli Crimi era genero di un questore e dal 1947 al 1966 esercitò per la questura di Palermo e privatamente, sostenendo di aver avuto fino al 1964, accanto a una florida attività di divulgazione scientifica, la clinica Miceli di Palermo. Poi era volato negli Stati Uniti lavorando prima al Metropolitan Hospital di New York e poi nel New Jersey dove gli sarebbe stata assegnata una cattedra universitaria (la Commissione Sindona smentì la circostanza).
Divenuto cittadino statunitense nel 1971, di sé diceva di essere un «massone sentimentale e internazionale». Affiliatosi a diciott’anni a una loggia afferente alla comunione di Piazza del Gesù, l’obbedienza più reazionaria e al cui interno si potevano rintracciare “fratelli” di estrema destra, era stato insignito del massimo grado dal dignitario Tito Ceccherini. Tuttavia nel 1977, l’anno in cui conobbe Sindona, sostenne di essersi messo in sonno, ma rimase fedele a un obiettivo: traghettare la costellazione massonica italiana verso un’unificazione che comprendesse anche realtà molto in chiaroscuro, come la Camea, su cui si tornerà.
Con il banchiere di Patti il feeling era stato immediato e le sue frequentazioni si erano estese anche a Licio Gelli, anche presso la sua residenza di Arezzo, villa Wanda. Nel frattempo aveva stretto rapporti con Giacomo Vitale, cognato del boss Stefano Bontate e massone iscritto alla Camea, e con Michele Barresi, al vertice della stessa Camea. Era insomma uno che intratteneva ottimi rapporti con molteplici ambienti e per questo Joseph Miceli Crimi, nell’estate 1978, si trovava a bordo di un panfilo, il Trident, al largo dell’isola di Ustica.
È un incontro rimasto misterioso, questo. Ciò che si sa è che sul Trident c’erano massoni di nazionalità varie. Tra di loro John Connally, ex governatore del Texas e presente sulla limousine presidenziale di John Fitzgerald Kennedy quando venne ucciso a Dallas, il 22 novembre 1963. Ferito nell’attentato, fu come Davis Kennedy segretario al Tesoro tra il 11 febbraio 1971 e il 12 dicembre 1972, sempre in epoca Nixon. (…)”.

Capitolo 2

“(…) Invece, nel luglio di quell’anno, erano in Sicilia a casa di Ciccio Mangiameli, antropomorfica rappresentazione delle nuove alleanze fra neofascisti, mafia, logge massoniche deviate e Servizi segreti.
Poi alla fine del mese, mentre partivano dalla Sicilia per la missione di morte, Mangiameli si recava a Taranto per affittare l’appartamento-covo nel quale si sarebbero recati dopo le bombe.
Contemporaneamente anche il SISMI etero diretto da Licio Gelli si dava da fare. Iniziava a preparare l’operazione “Terrore sui treni” per sviare le indagini sulla strage. Il depistaggio sarebbe partito da Taranto nel gennaio del 1981 quando, nel covo di quella città, c’erano Valerio Fioravanti e altri terroristi neri con cui, secondo i giudici, il SISMI piduista avrebbe intessuto “inconfessabili contatti”.
Pensavano di essere dei rivoluzionari e invece erano degli impiegati del parastato. Pensavano di usare e sono stati usati. (…)”.

“(…) Cos’ha in comune la vicenda di cui ci stiamo occupando con il rapimento del presidente della DC Aldo Moro e quello successivo dell’assessore ai lavori pubblici della Campania Ciro Cirillo? Nel 1996 è stata casualmente trovata un’informativa del 1972. Si parlava di un servizio segreto (più segreto degli altri) nato nel 1944 e composto da 164 persone: il Noto servizio o Anello. Le indagini successive hanno confermato le prime informazioni e aggiornato le conoscenze. Fra il 1997 e il 1981, l’Anello, diretto da Adalberto Titta, un ex aviatore repubblicano che disquisiva di incidenti stradali simulati per nascondere omicidi, ha partecipato ad almeno tre operazioni d’intelligence, fra cui le vicende Moro e Cirillo, ovvero gli altri due casi in cui Belmonte era stato distaccato alla prima divisione. Il terzo episodio riguarda la fuga di Kappler dall’ospedale militare del Celio. Risale al 1977, quando Musumeci e Belmonte non erano ancora al SISMI, ma la vicenda aiuta a capire il rapporto fra l’Anello e il servizio militare. (…)”

Capitolo 3

“(…) Anche questa volta si era pensato alle bombe fasciste in una galleria già colpita. Perché erano esplose l’antivigilia di Natale del 1984 nello stesso tunnel di San Benedetto Val di Sambro ove l’eversione nera aveva fermato la corsa dell’Italicus (dodici morti e quarantotto feriti) dieci anni prima. Poi è stato arrestato (e condannato) Pippo Calò e allora si è pensato a bombe mafiose. Perché Pippo Calò è un importante capo mafia, l’esplosivo proveniva da un deposito di Cosa nostra e Totò Riina ne era informato. Ma, in realtà, c’è un mondo che ruota attorno a Pippo Calò, fatto di apparati, neofascisti, criminali romani e massoneria deviata.
E, poi, perché aveva fatto preparare dodici congegni d’innesco per un’unica strage? Perché era stato portato tanto esplosivo dalla Sicilia in un capannone appositamente comprato? C’era in programma un solo attentato o era una drammatica anticipazione delle campagne stragiste del 1992-1993? Allora chi dobbiamo veramente ringraziare per il “casuale” rinvenimento dei troppi inneschi e del troppo esplosivo che ha fermato il dilatarsi delle pulsioni stragiste nel 1984? (…)”.

“(…) Pippo Calò ha sempre negato le proprie responsabilità nella strage di Natale. Gli elementi raccolti nel 2010 consegnano profili ulteriori rispetto a quelli che, già nel 1992, gli erano valsi la condanna. È dunque il momento di ricordare che il siciliano è stato uno dei grandi capi di Cosa nostra. Ma è stato anche altro.
Nato nel 1931, tenta il primo omicidio nel 1954 e presto giura nelle mani di Tommaso Buscetta quale uomo d’onore. Nel 1969 diviene capo della famiglia di appartenenza, quella di Porta Nuova. Continua la sua carriera diventando capo mandamento e, in tale veste, partecipa alla “commissione” di Cosa nostra, l’organismo che prende le decisioni di maggior rilievo sui programmi criminali della mafia e dirige le questioni interne. Negli anni Settanta è stato duramente accusato da Leonardo Vitale, uno dei primi pentiti di mafia, che, però, non vene creduto, fu fatto passare per pazzo e, quindi, una volta uscito da un ospedale psichiatrico, ucciso. Poi, sono venuti Buscetta, Totuccio Contorno e tanti altri e ci si è accorti che Vitale aveva ragione.
Nel pedigree di Pippo Calò, oltre a quella per la strage del Rapido 904, vi sono le condanne per gli omicidi di Piersanti Mattarella, Pio La Torre, Michele Reina, Carlo Alberto Dalla Chiesa, Boris Giuliano, Paolo Giaccone, Antonino Scopelliti, Cesare Terranova, Giovanni Falcone con la moglie e gli uomini della sua scorta. Tuttavia la sua peculiarità rispetto agli altri capi di Cosa nostra è di essere stato il referente della mafia per il riciclaggio di imponenti somme di denaro sporco. Il rinvenimento nella cassaforte dell’appartamento di via delle Carrozze di banconote provenienti da due sequestri di persona, benché per un importo modesto rispetto alle somme maneggiate da Calò, ha il pregio di dare il senso della concretezza a tale ruolo.
Infatti, sin dai primi anni Settanta, Calò si sarebbe occupato «della gestione e del trasferimento in Svizzera di ingenti somme di denaro appartenenti ad esponenti mafiosi e guadagnando, anche con il traffico degli stupefacenti, “un mucchio di quattrini”, che» avrebbe reinvestito in attività apparentemente lecite con un imprenditore palermitano.
La sentenza sulla strage del Rapido 904 ricorda inoltre come «attraverso un discreto esercito di prestanome entra in possesso di un numero tutt’altro che trascurabile di immobili». La stessa sentenza lo ripropone al centro di una «attività imprenditoriale frenetica con un volume d’affari vorticosissimo». Attraverso Domenico Balducci ed Ernesto Diotallevi diviene il riclicatore dei soldi della Banda della Magliana, con cui ha rapporti diretti. È ancora la sentenza sul Rapido 904 a segnalarlo anche come colui che ripulisce il denaro proveniente dall’eversione fascista. Né si pensi che i rapporti con la Banda della Magliana e l’eversione neofascista fossero indifferenti alle vicende del Rapido 904. Il teste Claudio Sicilia riferisce ai giudici che Massimo Carminati, il neofascista romano tornato ai clamori della cronaca con la vicenda “Mafia Capitale” esplosa a Roma nel dicembre 2014, era interessato al buon esito delle perizie in via di svolgimento sul materiale sequestrato a Poggio San Lorenzo.
A ciò si aggiunga che la sentenza sulla strage del rapido 904 propone Pippo Calò in stretti rapporti anche con la camorra napoletana. Ma soprattutto Calò è pienamente immerso nelle torbide vicende che in quegli anni sconvolsero la finanza italiana. Se ne occupa la sentenza del 6 giugno 2007 della Corte d’Assise di Roma che si è pronunciata sull’omicidio Calvi. Qui si parla dei rapporti con Flavio Carboni, Banco Ambrosiano, Michele Sindona prima e Roberto Calvi dopo. Alcuni collaboratori di giustizia, seppur con qualche ambiguità (avrebbe potuto essere diversamente?), hanno parlato dei rapporti fra Calò e la P2 di Licio Gelli.
Senonché proprio la poliedricità d’interessi criminali che ruotavano attorno, da un lato, al “banchiere di Dio”, come Roberto Calvi è stato soprannominato, e, dall’altro, a Pippo Calò, che era il principale imputato del suo omicidio, ha finito col nuocere all’ipotesi accusatoria in quel processo. A noi, tuttavia, consegnano la consapevolezza del contesto che si muove attorno alla strage del Rapido 904. (…)”.

Capitolo 4

“(…) Grazie alla collaborazione dei pentiti, il 27 ottobre 2000 la Corte d’Assise di Caltanissetta condannò per strage Salvatore Riina, Antonino Madonia, Salvatore Biondino, Giovan Battista Ferrante e Francesco Onorato;assolse, invece, Angelo e Vincenzo Galatolo per non aver commesso il fatto. L’8 marzo 2003 la Corte d’Assise d’Appello di Caltanissetta confermò la sentenza di primo grado, riducendo la pena per Ferrante e Onorato. Infine, la Corte di Cassazione il 6 maggio 2004 confermò le condanne e annullò con rinvio le assoluzioni di Angelo e Vincenzo Galatolo, i quali furono condannati il 16 giugno 2005 dalla Corte d’Assise d’Appello di Catania. La condanna a carico di Angelo e Vincenzo Galatolo passò in giudicato il 26 marzo 2007. (…)”.

“(…) Francesco Di Carlo, boss della famiglia di Altofonte e alle spalle una lunga carriera di narcotrafficante fra l’Italia, il Regno Unito e l’America, decise di iniziare a collaborare con la giustizia nel 1996 mentre era detenuto a Londra. Di Carlo riferì di due incontri (il ritmo dei quali avvenuto per il tramite del terrorista palestinese Nizar Hindawi) mentre era detenuto in Inghilterra con personaggi appartenenti ai Servizi segreti, italiani e non. In uno di questi incontri gli fu chiesta collaborazione per un progetto di omicidio ai danni di Giovanni Falcone. Di Carlo – spiegò – diede a quegli uomini il nome di un suo cugino, Nino Gioè, esperto di esplosivi, personaggio che poi ebbe effettivamente un ruolo nella strage di Capaci e che morì successivamente in carcere in un “suicidio” sul quale rimangono, ancora oggi, molte perplessità.
Nel gennaio 2014 a Palermo, deponendo nel processo sulla “trattativa Stato-mafia”, Di Carlo ha aggiunto il nome di uno degli esponenti dei Servizi segreti italiani che lo sarebbero andati a trovare nel carcere inglese: Arnaldo La Barbera (capo della squadra mobile di Palermo dal 1988 al 1992).
Il particolare più inquietante, tuttavia, lo ha rivelato Francesco Onorato, il secondo collaboratore di giustizia ad aver parlato dell’Addaura, riportando una confidenza fattagli dal suo capo (e braccio destro di Salvatore Riina, tant’è che venne arrestato con lui), Salvatore Biondino: una “entità esterna” avrebbe fornito copertura a Cosa nostra nell’attentato all’Addaura. Onorato, inoltre, ha affermato: «I Madonia avevano rapporti con i Servizi. In Cosa nostra il fatto era notorio. Non mi riferisco solo ai rapporti con Contrada. Negli anni settanta Ciccio Madonia aveva messo le bombe per conto dei Servizi. Questo si diceva e questo vi dico. In particolare erano Bano Biondino, Saro Riccobono e Micalizzi» (…)”.

“(…) Mafia, deviazioni degli apparati di Polizia, esponenti dei Servizi segreti coinvolti in delitti di Stato: nello scenario spaventevole che avvolge l’uccisione di Nino Agostino e ida Castelluccio poteva mancare la destra eversiva?
E così Vito Lo Forte segnalò che “faccia da mostro” «era un terrorista di destra, amico di Pierluigi Concutelli, che ha fatto attentati su treni e caserme, che ha fornito anche il telecomando per via D’Amelio».
Francesco Marullo, invece, disse: «Ho incontrato un uomo con la cicatrice in volto nello studio di un avvocato palermitano legato a Concutelli».
Certo è che Nino Agostino lavorava al commissariato di Polizia San Lorenzo di Palermo e questo ufficio era frequentato anche da un personaggio molto particolare. Si tratta di Stefano Alberto Volo, estremista di destra legato a Francesco Mangiameli e pure a Valerio Fioravanti, dei quali si è parlato nel capitolo 2 sulla strage della stazione di Bologna.
Secondo quanto lo stesso Volo raccontò al giudice istruttore di Palermo nel 1989, egli era amico e confidente del dirigente del commissariato San Lorenzo, Elio Antinoro, rimasto alla guida di quel commissariato fino a pochissimi mesi prima dell’omicidio Agostino. (…)”.

“(…) I Servizi segreti hanno sempre negato la presenza dell’agente Antonino Agostino nelle loro file e, a oggi, non si è trovato nessuna prova definitiva che possa smentirlo o che possa confermare le versioni dei colleghi di Agostino e dei collaboratori di giustizia che ne parlarono. Sicuramente, però, importanti boss mafiosi e appartenenti ai Servizi di sicurezza hanno dimostrato, nel tempo, un interesse incomprensibile nei confronti di  un semplice poliziotto che lavorava come agente di pattuglia. (…)”.

Capitolo 5

“(…) L’autoparco di via Salomone a Milano è un punto d’incontro: vi si determinano affari ed equilibri criminali dell’intera Lombardia e non solo. Li si ritrovano mafiosi siciliani, i clan calabresi più forti, quelli campani e quelli pugliesi. Oltre trent’anni dopo i giudici di Reggio Calabria li racchiuderanno in una locuzione: «Il consorzio». In quel luogo si rafforza grazie ad appoggi o distrazioni delle forze dell’ordine e della magistratura. Emergono legami precisi con esponenti della struttura segreta dell’Anello. La famiglia Papalia di Platì-Buccinasco è un tassello importante del «consorzio» e coltiva relazione occulte con apparati dello Stato. Ne è testimone l’educatore carcerario Umberto Mormile. Ma quelle relazioni devono rimanere segrete. Per questo Mormile viene assassinato e la sua memoria infangata. Con l’omicidio Mormile fa la sua apparizione la Falange Armata. (…)”.

“(…) Fra gli innumerevoli scenari delittuosi, fra il 21 novembre 1984 e il 9 febbraio 1985, il “Tebano”, come era stato ribattezzato negli ambienti della mala milanese, raccontò al magistrato anche dell’autoparco di via Salomone e di alcuni dei suoi principali frequentatori, come Salvatore Cuscunà e Rosario Cattafi, entrambi accusati di essere emissari di Benedetto Santapaola. Certo, Epaminonda fu complessivamente reticente su numerosi argomenti e personaggi, primo fra tutti il suo amico Luigi “Jimmy” Miano. Tuttavia, a Di Maggio, con le pur parziali indicazioni di Epaminonda, dopo le prove raccolte nel rapporto giudiziario dei carabinieri, era arrivata la conferma che l’autoparco di via Salomone fosse la sede di un sodalizio mafioso e di grossi traffici illeciti. Era febbraio del 1985. (…)”.

“(…) Insomma, l’alleanza criminale che ebbe sede presso l’autoparco di via Salomone aveva tutta l’aria di una struttura occulta e la sua sottovalutazione in sede investigativa e giudiziaria ne mantenne intatta quell’aura di segretezza.
Negli ultimi vent’anni, a partire soprattutto dall’attività svolta dal professore Aldo Giannuli come consulente dei magistrati di Milano e di Brescia impegnati nelle istruttorie riguardanti le stragi di Piazza Fontana e di Piazza della Loggia, è stata disvelata l’esistenza di un informale apparato di sicurezza, denominato «Anello» o «Noto servizio».
Potevano la struttura mafiosa occulta dell’autoparco e la struttura golpista occulta dell’Anello non trovare elementi di congiunzione? (…)”.

Capitolo 6

“(…) Cos’hanno in comune la Uno bianca e la Falange Armata? La prima sarebbe una impresa criminale a natura familiare, l’altra una banda di mitomani, forse annidati nei gangli dello Stato, ma pur sempre mitomani dediti ad amplificare coi loro comunicati gli effetti di gesta criminali altrui. Una volta arrestati i fratelli Savi (due agenti, Roberto e Alberto,  e l’unico “civile”, Fabio), la loro confessione fu semplice e disarmante: «Abbiamo fatto tutto noi per denaro».
Ma le cose stavano davvero così? È vera la versione dei poliziotti-rapinatori consegnata alle cronache? Come mai non vi è un solo fatto di sangue su cui i fratelli assassini non abbiano mentito? E perché a un certo punto fanno trapelare nomi di mafiosi, camorristi, agenti dei servizi e faccendieri con cui avevano rapporti? Ma soprattutto è proprio vero che la Uno bianca fu un fenomeno unico?
Occorre partire da qui e, a quel punto, i comunicati falangisti diventeranno improvvisamente chiari e con essi assumerà coerenza l’intera strategia stragista degli anni novanta. (…)”.

“(…) Dopo l’omicidio Lima, l’omicidio Guazzelli e la strage di Capaci, tutti rivendicati dalla Falange, si arriva al luglio del 1992, a ridosso della strage di via D’Amelio.
L’11 luglio 1992, una telefonata raggiunge il centralino dell’Adnkronos di Roma: una voce maschile, senza inflessione, comunica che da quel momento in avanti la Falange Armata avrebbe rivendicato le proprie azioni attraverso un «codice di riconoscimento». Mai la Falange Armata aveva utilizzato un codice prima di quella telefonata. E tornò a utilizzarlo il 13 luglio, quando spiegò di nuovo all’Adnkronos di Roma, di non avere intenzione di uccidere in Sicilia l’allora sindaco di Palermo Leoluca Orlando. Poi arriva il 19 luglio 1992 e la strage di via D’Amelio. (…)”.

Capitolo 7

“(…) L’hanno chiamata “strage di mafia”, ma l’attentato che nel 1992 uccise Giovanni Falcone e la moglie Francesca Morvillo, oltre agli uomini della scorta, ha una storia difficile da comprimere in quelle tre parole. (…)”.

“(…) In quei giorni attorno a Falcone, a sorpresa, si strinse tutto il vecchio sistema (Andreotti, De Mita, Cossiga) che, dopo averlo considerato un nemico, improvvisamente vide in lui una speranza pre resistere agli attacchi del sistema criminale che, a partire dall’omicidio Lima, ritenne gli uomini della Prima Repubblica incapaci di tutelare i propri interessi. Falcone (e poi Borsellino, votato dal MSI al Quirinale) comparve in trincea come il primo paladino di una classe politica “sotto attacco” in una situazione di pericolosissima sovraesposizione personale della quale si rese probabilmente conto. Ma proprio in quel periodo, incredibilmente, il sistema di protezione per il giudice più blindato d’Italia, trasferito dalla Squadra Mobile all’ufficio scorte della questura, era stato drasticamente ridotto: eliminata l’auto di “bonifica”, sparito l’elicottero di appoggio, da ventuno poliziotti si era passati a dodici. Che non potevano contare più su fucili e radio portatili.
Il commando militare mafioso, invece, aveva dimostrato fino a quel momento, piena operatività. I sei picciotti inviati da Riina a Roma agli  inizi di febbraio per studiare le mosse del giudice e colpirlo nella capitale, avevano affittato appartamenti, avviato pedinamenti e attendevano solo un ordine da Palermo. Ma Riina il 4 marzo li richiamò improvvisamente in Sicilia. Il capo di Cosa nostra aveva modificato i suoi piani: Falcone doveva morire qui e il “botto” doveva essere eclatante. (…)”.

Capitolo 8

“(…) Tra Capaci e via D’Amelio passano cinquantasette giorni e quindici chilometri. Paolo Borsellino cerca la verità sull’uccisione di Giovanni Falcone, vede la mafia in diretta e avverte puzza di morte nei palazzi del potere. Sa che la sua corsa è contro il tempo e annota tutto freneticamente su un’agenda rossa. Il 19 luglio Palermo somiglia di nuovo a Beirut. Fra le fiamme qualche uomo di Stato sottrae dalla borsa del magistrato l’agenda rossa, che mai più ricomparirà. Ricompare, invece, a guidare le indagini, Arnaldo La Barbera. Un altro depistaggio viene praticato. Enzo Scarantino è il pupazzo con il quale pezzi dello Stato costruiscono una colossale impostura. Dopo  oltre quindici anni arriva un mafioso, Gaspare Spatuzza, e fa crollare lo scenario di cartapesta, raccontando che dietro la morte di Borsellino e di cinque poliziotti c’è la mano di Cosa nostra ma anche qualc’altro, che ha le sembianze di un uomo nero. (…)”.

Capitolo 9

“(…) Tra le stragi “di mafia”, quelle del 1993 hanno colpito l’attenzione del Paese per la scelta degli obiettivi.. non era mai successo che un’organizzazione terroristica avesse scelto di uccidere a due passi dagli Uffizi, a Firenze, o dai simboli della cristianità, a Roma. Il PM fiorentino Gabriele Chelazzi parlò di “offesa all’umanità”, consumata in questo caso ammazzando e sfregiando, tra gli altri, capolavori e luoghi di culto. Fu proprio Chelazzi a individuare per primo in quelle bombe il linguaggio cifrato di uno strano dialogo tra criminali di diversa natura e istituzioni, quella trattativa sinteticamente definita tra Stato e mafia che ancora oggi impegna le aule di giustizia. Una trama che se ancora non è stata fotografata in una sentenza era chiara a inquirenti come Pieluigi Vigna: «Penso che pezzi deviati dei servizi segreti siano stati gli ispiratori, e qualcosa anche di più, delle bombe di Firenze, Roma e Milano …». Sulla sfondo di questa e di altre vicende, si intravvedono le ombre di strane organizzazioni come la Falange Armata, che debuttò con l’omicidio dell’educatore carcerario Umberto Mormile e accompagnò la parte più sanguinosa della stagione della Uno bianca. (…)”.

“(…) La notte tra il 16 e il 17 aprile 2003 Gabriele Chelazzi, PM della DNA (Direzione Bazionale Antimafia) applicato a Firenze come titolare dell’inchiesta sulle stragi, va a dormire nel suo alloggio in una caserma della Guardi di Finanza a Roma, dopo avere parlato a lungo al telefono con un’amica. Intorno alle 3.00 del mattino il suo cuore cessa di battere: il referto parla di arresto cardiaco “elettrico”, ed è l’unica diagnosi compiuta. La morte di quel magistrato poté considerarsi “provvidenziale” per molte persone già entrate nel fascio di luce dei riflettori delle indagini di Chelazzi che, dieci anni prima dell’inchiesta sulla trattativa Stato-mafia della Procura di Palermo, era arrivato, sostanzialmente, alle stesse risultanze processuali, esplorando quelli che la prima sentenza sulla strage di via dei Georgofili aveva ritenuto, ai fini della decisione, “senza senso” indagare. E cioè chi, alle spalle degli ufficiali del ROS Mario Mori e Giuseppe De Donno, avesse tirato le fila della trattativa avviata dopo la strage di Capaci, che «ebbe l’effetto di convincere i capi mafiosi che la strage era idonea a portare vantaggi all’organizzazione» uccidendo Paolo Borsellino e proseguendo nell’azione stragista, ritenuta così pagante. (…)”.

“(…) Le bombe finirono improvvisamente il 23 gennaio 1994 con il fallito attentato a un pullman di Carabinieri in servizio di ordine pubblico allo stadio Olimpico di Roma (cfr. capitolo conclusivo). Fu l’ultimo segnale di guerra. Quattro giorni dopo i fratelli Filippo e Giuseppe Graviano vennero ammanettati al tavolo del ristorante “Gigi il cacciatore”, a Milano. Secondo alcuni avrebbero conservato l’ultima delle bombe, quella fatta di segreti imbarazzanti per Silvio Berlusconi, considerato, a torto o a ragione, interlocutore di cosa nostra lungo quella stagione stragista. A tal proposito, il presidente del Senato Pietro Grasso, il 7 agosto del 1998, da magistrato della DNA, firmò insieme ai suoi colleghi fiorentini la richiesta di archiviazione di Autore 1 e Autore 2, nomi di copertura dei due indagati, Silvio Berlusconi e Marcello Dell’Utri, scrivendo che «molteplici (sono, nda) gli elementi acquisiti univoci nella dimostrazione che tra Cosa nostra e il soggetto politico imprenditoriale intervennero, prima e in vista delle consultazioni elettorali del marzo 1994, contatti riconducibili allo schema contrattuale, appoggio elettorale-interventi sulla normativa di contratto della criminalità organizzata».
E ancora: «Il rapporto tra i capimafia e gli indagati (Berlusconi e Dell’Utri, citati come Autore 1 e Autore 2 e rappresentanti il nuovo “soggetto politico imprenditoriale” in contatto con Cosa nostra, nda) «non ha mai cessato di dimensionarsi (almeno in parte) sulle esigenze di Cosa nostra, vale dire sulle esigenze di un’organizzazione criminale». Tra Berlusconi e i boss ci sarebbe stata un’antica intesa,, cristallizzata nel luglio 2014 dalla sentenza della Cassazione su Marcello Dell’Utri, che storicizzò quel rapporto indicando il rampante Marcello come il garante dell’accordo stretto per diciott’anni, dal 1974 al ’92, tra l’imprenditore di Arcore e Cosa nostra: protezione mafiosa in cambio di denaro. Nonostante i premi distribuiti nel 2012 da Pietro Grasso alla «lotta alla mafia condotta da Berlusconi e dal suo governo», le parole dell’allora sostituto della DNA (e degli altri PM) trovarono conferma clamorosa nel verdetto della Suprema Corte, sollecitando legittimi interrogativi: tra quel «dimensionarsi» rientrava anche la commissione di stragi? In questa direzione la Procura di Firenze esplorò più piste investigative, sfidando continuamente le accuse provenienti dai media, di «interazioni criminalizzatrici all’insegna dell’antiberlusconismo», confluite nella richiesta di archiviazione già citata.
Restava la bomba inesplosa delle rivelazioni dei Graviano e ci fu un momento, alla fine del 2009, in cui sembrò stesse per esplodere, ma i due boss di Brancaccio si limitarono a qualche allusione e per il resto non aprirono bocca; parlarono, invece, quattro picciotti della loro cosca, puntando tutti il dito, chi direttamente, chi attraverso il fidato Dell’Utri, contro il patron della Fininvest. (…)”.

Capitolo 10

“(…) Fra Prima e Seconda Repubblica il tempo è scandito dalle bombe in Sicilia e nel continente. Cosa nostra prosegue la strategia eversiva per piegare lo Stato con il tritolo alle proprie richieste e, al contempo, tratta col Palazzo alla ricerca di una rinnovata convivenza. I politici un tempo amici sfuggono alla vendetta di Cosa nostra: il prezzo della trattativa è pagato da inermi cittadini con la vita e dalla nazione con il cedimento simbolico sul carcere duro. Al centro-sud nascono nuovi movimenti separatisti, su iniziativa delle solite entità, perennemente in azione dal dopoguerra: massoneria deviata, destra eversiva, criminalità mafiosa. Nell’autunno 1993, dopo l’esplosione di un ordigno al Tribunale di Palermo, Cosa nostra progetta un’autobomba allo stadio Olimpico di Roma: l’attentato fallisce ma la carica ricattatoria deflagra nelle stanze del potere. Nel frattempo svanisce il progetto secessionista e nasce un nuovo partito politico. La guerra dei quindici anni si avvia alla conclusione. (…)”.

“(…) Anche in quest’occasione offerta dalla Storia, Cosa nostra aderisce al costume più autentico dell’homo italicus, quello di salire sul carro del vincitore, come da illuminante fotografia antropologica di Ennio Flaiano. Forza Italia e Berlusconi (e quindi il progetto partorito dalla geniale intuizione di Dell’Utri, ma solo di Dell’Utri?) sono destinati a vinvere le elezioni, perché in quel torno di tempo sono riusciti a infilarsi nel cuneo offerto dalle condizioni concrete, con un elettorato che non aspettava altro che un, finto quanto si vuole, dopato quanto si vuole, rinnovamento radicale.
Sull’andamento delle elezioni politiche del 1994, l’incidenza dei voti di Cosa nostra è simile a quello della mosca cocchiera (in concreto, insignificante rispetto al risultato complessivo: ancora una volta “il messaggio è il mezzo”, per ribaltare la massima di McLuhan). Come sempre, come nel 1943, come nel 1948, come con l’ammucchiata del governo Milazzo alla guida della Regione Siciliana, come durante la strategia della tensione, come in tanti altri tornanti della Storia, anche nel 1994 Cosa nostra, forse per l’ultima volta come intera organizzazione (perché forse si avvicina l’inveramento della profezia di Giovanni Falcone sulla sua ineluttabile fine) riesce a sedersi al tavolo in cui si contratta il cambiamento. (…)”.

Conclusione

“(…) «Se vogliamo che tutto rimanga com’è, bisogna che tutto cambi». La lezione cinica di Tomasi di Lampedusa al volgere della Seconda Repubblica trova l’ennesima attuazione. I veri Gattopardi di questo tempo, però, non molto diversi poi da iene e sciacalli, colo che faranno da traghettatori nell’eterno presente delle strutture del potere, non saranno più gli esponenti del ceto politico. Il potere reale passerà molto di più dalle mani degli uomini degli apparati di Polizia, dei servizi segreti, delle banche, del mondo finanziario, delle compagnie telefoniche, del settore della sicurezza della grande industria privata, del controllo degli appalti pubblici, dell’industria di Stato e, forse, alle volte perfino di esponenti dell’ordine giudiziario. Molti esemplari di questa nuova antropologia (che da consiglieri del principe si sono fatti prìncipi essi stessi e hanno ormai sottoposto i politici al loro comando) passeranno negli anni da un ruolo all’altro, in una sorta di giostra del potere, sempre ottenendo (più correttamente, imponendo) il consenso della politica e il favore di stampa e televisioni.
In un sistema istituzionale sempre più simile a una “Repubblica del ricatto”, del resto, quali strumenti esistono più formidabili dei segreti su stragi, depistaggi e trattative? “.

a cura di Salvatore Borsellino
La Repubblica delle Stragi
1978/1994 Il patto di sangue tra Stato, Mafia, P2 ed eversione nera
PaperFIRST by il Fatto Quotidiano

 

 

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