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67. Giustizia di Raphael

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Crediamo che questa parola, al pari di ‘amore’, abbia avuto la sua origine con la nascita dello stesso uomo. Parola dunque di estrema importanza, di profondo significato e di varia valenza se consideriamo che alcuni, per non dire molti, in nome di tale principio hanno commesso soprusi, iniquità e persino delitti. Trovandoci sul piano duale, o meglio polare, la giustizia ha come suo contrario l’ingiustizia, e tra i due termini corre solo un esiguo filo come quello di una lama di rasoio.
Che cos’è giusto e che cosa non-giusto? Il problema non è facile e non tenteremo neanche di esaurirlo, anche perché essendo un principio fondamentale dell’individuo, è di enorme complessità e universalità.
Incominciamo col dire che l’idea di giustizia nasce là dove un ente, con determinate esigenze, si trova di fronte ad altri enti con altrettanti bisogni, e a volte anche contrapposti. Rimane ovvio che, dovendo vivere insieme, si pone il problema di come armonizzare le varie necessità e i molteplici desideri e chi, nel caso di una moltitudine di persone, debba “governare”, non essendo l’individualità causa sui, per cui deve avere punti precisi di riferimento e di direzione.
Così, dovremo esaminare il senso o il principio di giustizia, sia a livello individuale sia a quello collettivo, poi riconoscere chi è capace, o ha le qualificazioni, di dirigere o governare; infine, che cos’è l’ingiustizia.
Quand’è che un ente è giusto con se stesso? Si, perché vi è una giustizia prima di tutto in riferimento a se stessi, essendo quella collettiva un’estensione della giustizia individuale.
Per esaminare il problema ci può essere di aiuto Platone, laddove parla della Politéia (Costituzione). Abbiamo detto che, in termini collettivi, la giustizia deve saper armonizzare, accordare le varie esigenze dei singoli. L’accordo e l’armonia di esigenze qualitative e quantitative sono i presupposti su cui deve basarsi il senso della giustizia. Vedremo poi a quale facoltà dell’ente dovremo rivolgerci per attuare un giusto accordo, dal momento che l’armonia di qualità esige un principio direttore che, appunto, sappia accordare e armonizzare opposte esigenze.
Quand’è, dunque, che l’individuo può definirsi giusto, quand’è che può concepirsi ente in perfetta rettitudine? Per comprendere questo ‘essere giusti’ occorre capire le qualità espressive dell’ente perché la giustizia, abbiamo detto, è l’accordo di esigenze eterogenee.
Sappiamo che l’essere è formato di una sfera razionale (logos), da una emotivo-passionale e da una istintiva-materiale; vale a dire, da una sfera illuminativa, da una irascibile-passionale in cui prevalgono qualità irrazionali, unilaterali e deformanti, e da una prettamente cieca, oscura e istintiva caratterizzata dalla legge della specie animale. Platone parla di sfera noetica, irascibile e concupiscibile-istintuale; il Vedanta menziona le tre qualità di sattva, rajas e tamas che sono termini perfettamente equivalenti a quelli di Platone.
Se quindi abbiamo questa tripartizione di qualità, per essere nella perfetta giustizia con se stesso l’ente deve trovare il giusto accordo espressivo, diversamente tra le varie qualità vi sono prevaricazione, lotta, dissenso e disordine. Se prevale il lato irascibile (rajas), ci si può trovare su un piano di auto-affermazione, di dominio, di iperattivismo privo di ragione, di prevaricazione sulle altre facoltà fino a neutralizzarle. Se prevale l’attività-qualità concupiscibile (tamas) si è più animali che esseri umani; se l’irascibile e il concupiscibile si alleano abbiamo un essere essenzialmente pericoloso per e per la collettività (e di questi enti l’umanità ne ha avuti e ne ha in grande quantità). L’irascibile e il concupiscibile (rajas e tamas), esprimendosi in termini irrazionali e nella più completa cecità, non possono non condurre nel chaos e nel disordine. Se queste due facoltà sono chaos e cecità, l’ente giusto è colui che sa creare in sé un cosmos, principio di ordine, di accordo di molteplici voci. E qual è la facoltà-qualità che può trasformare il chaos in un cosmos? Senza dubbio dovremo riconoscere che quella facoltà corrisponde all’intelletto puro o noetico (sattva), alla ragione sovrasensibile, la sola che può offrire illuminazione e che può direzionare, in giustizia, le due oscure qualità le quali dovranno quindi essere subordinate alla qualità noetica. Laddove questa subordinazione non sussiste dovremo aspettarci la degenerazione dell’ente e quindi la sua morte come individuo umano. La tragedia più grande per l’individuo è quella di essersi limitato e costretto nel rajas-tamas escludendo la sfera sovrasensibile. L’ente, così, è diventato soltanto “polvere”, “materia-massa”, coscienza organica trovandosi in un circolo chiuso. Se escludiamo la “parte” noetica, intelligibile abbiamo solo un organismo oberato da bisogni utilitaristici e contrapposti, spesso espressi con violenza.
L’ente che non sappia trascendersi come individuo organico, che non trovi una cultura che favorisca il risveglio dello stato noetico, non può trovare nessuna Costituzione che possa dare armonia e direzione a ciò che per natura è dicotomia e caos.

“Allora, alla potenza razionale convien dominare. E’ sapiente e ha possibilità di provvedere per l’anima nella sua totalità. Invece alla potenza irascibile conviene l’esser subordinata e alleata a quella prima.
- Certamente.
- E non è forse vero che, come dicevamo, una giusta contemperanza d’attività musaiche e ginniche ne assicurerà un’opportuna armonia? E l’una potenza sarà esaltata e nutrita con discorsi elevati e belli e per mezzo di conoscenza; l’altra invece con dolce persuasione sarà rallentata e resa mite per mezzo d’armonia e di ritmo.
- Senza dubbio, disse lui.
- E per tal modo, tutte e due, nutrite e istruite per mezzo di conoscenza adatta e per tal mezzo educate, potranno presiedere alla potenza concupiscibile, la quale in ciascuno ha importanza grandissima ed è per natura la più insaziabile. E le due prime debbono custodire tale potenza del concupiscibile perché questa, ingurgitandosi nei cosiddetti piaceri materiali, diverrebbe eccessiva e troppo forte; non attenderebbe più al suo particolare compito, ma cercherebbe di sottoporre a sé le altre facoltà, quasi schiave, e di dominarle. Il che non gli si addice per natura. Nel qual modo l’intera vita finirebbe per essere sconvolta.
- Certo, rispondeva.
- E cosa credi?, gli dissi … Sapiente poi, per quella piccola parte con cui ciò che domina in noi, dà anche annunzio di quanto si deve e non si deve temere. E questa parte sa quanto giova a ciascuna potenza, come a tutte insieme che sono in numero di tre.
- Certamente.
- E senti un po’. Non saremo forse temperanti per l’accordo e per l’armonia di queste stesse potenze? La parte reggente e le due parti subordinate saranno convinte che il dominio compete alla facoltà razionale, e che all’imperio di questa non debbono ribellarsi.
- Già, è vero, disse lui; temperanza non è altro che questo, in una città e in un uomo singolo.
- Dunque giusto, nel modo che più volte veniamo dicendo”. (Platone, Politéia)

Da quanto sopra si può riconoscere che il Giusto è colui che, mediante l’illuminazione da parte del nous, sa accordare le esigenze qualitative individuali e sottoporre al nous le due altre potenze le quali, da sole, come abbiamo accennato, di ‘luce’, discernimento e direzione equanime. Da ciò si può dedurre che:

“L’ingiustizia dev’essere una discordia di queste tre facoltà; un’attività dispersa e troppo varia, quando una facoltà invade il campo di un’altra; una vera e propria ribellione di una contro l’intera costituzione dell’anima, allo scopo che questa singola acquisti una preponderanza che non le spetta, mentre invece per sua natura particolare dovrebbe essere sottoposta ad un’altra superiore facoltà che è di stirpe regale. Da questa condizione press’a poco, dalla confusione e dallo sconvolgimento conseguente provengono, affermeremo, l’ingiustizia, la sfrenatezza, la viltà, l’ignoranza; in una parola insomma tutta la malvagità”. (Ibid.)

E qual è quella città, polis o comunità, che sappia vivere la giustizia o la giusta espressione? Se una comunità è formata di più individui, essa è altresì caratterizzata dalle manifestazioni qualitative che appartengono al singolo ente. Di ciò non v’è dubbio. Ogni ente è il tutto in quanto svela in sé la totalità. Quindi, avremo una eterogeneità di qualità (guna), di bisogni, desideri, istanze che, se non dirette secondo giustizia, porteranno al caos (e di ciò ne abbiano già un’evidenza nella nostra presente polis).
La comunità, allo stato attuale del proprio sviluppo, è guidata dalle due qualità-guna dell’irascibile e del concupiscibile e in essa sono compresi molti governanti; perciò fino a quando non si attui lo sviluppo della noesis, dell’intelligibile in noi o della parte più alta del logos, la comunità non potrà assolutamente vivere il “senso di giustizia” poiché vi saranno pur sempre prevaricazioni, lotte, contrapposizioni, interessi irrazionali e uccisioni. In queste condizioni l’ente è fuori dalla comunità perché non è al giusto posto, non svolge il proprio dovere (dharma) e la propria areté. Se le due potenze cieche debbono, per necessità assiomatica, sottostare a quella noetica (sattva), allora una comunità può essere governata e guidata solo da coloro che, a loro volta, si lasciano guidare e governare da tale potenza luminosa, da coloro che hanno già attuato la giustizia in sé; dagli uomini giusti, dai veri Filosofi.

“E allora diremo, o Glaucone, che un uomo è giusto nella stessa maniera nella quale anche una Città è giusta.

- Anche questa, conseguenza necessaria.

- Ma non ci siamo certo dimenticati che la città è giusta per il fatto che ciascuna delle tre classi (del guadagno, delle armi e del consiglio) attende alla propria operazione.

- Eh! Non credo certo che ce ne siamo dimenticati.

- In ogni modo bisogna ricordare che, in quanto le singole facoltà compiano ciascuna la propria missione, ciascuno di noi sarà giusto e ciascuno compirà pure la propria missione”. (Ibid.)

Senza dubbio, se i principi basilari della politéia platonica, tolti ovviamente alcuni aspetti contingenti e particolari relativi all’epoca di Platone, venissero applicati nel contesto comunitario odierno si avrebbe una comunità basata sul “senso del Giusto” (del Bello e del Vero).

La paidéia platonica rappresenta ancor oggi il modello dell’educazione del singolo e della collettività, quella paidéia che sa offrire i mezzi per sviluppare e attuare l’intellezione, noesis, e l’ordine intraindividuale di contro alle forze irrazionali e tenebrose che purtroppo attualmente avanzano nel campo umano sotto l’egida della sofistica a cui Platone avrebbe guardato con orrore e con disprezzo.

Né tale concezione di Costituzione può sembrare utopistica, lo stesso Platone ne è consapevole.

“Se dunque dei filosofi eccellenti, o nel corso infinito dei secoli passati o anche al dì di oggi, in qualche regione barbarica lontana e fuori della nostra immediata conoscenza, siano stati costretti ad occuparsi di una città o siano costretti ad occuparsene in avvenire, noi siamo pronti a sostenere con buone ragioni che c’è stata, c’è e ci sarà la costituzione esposta da noi quando questa Musa filosofica s’imponga allo Stato, giacché né è impossibile che essa esista, né diciamo cose impossibili, per quanto noi stessi siamo i primi ad ammettere che la realizzazione ne è difficile”. (Platone, Politéia)

E perché questa costituzione è valevole, secondo Platone, anche nei secoli futuri? Perché ciò che proviene dalla ‘Musa filosofica’ del sovrasensibile, trovandosi nello stato atemporale e aspaziale, non ha la natura della corruzione.

da “Fuoco dei Filosofi” di Raphael

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