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92. La “Caduta” del Jiva nel piano del sensibile di Raphael

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La “caduta” del jiva nel piano del sensibile, è una possibilità che l’ente umano possiede frutto della sua libertà, non è un evento indispensabile, non è la costrizione di una Divinità malvagia che vuole rendere sofferente l’umano. A cadere nella generazione non è il jiva immortale, ma il suo riflesso, o raggio di coscienza, entrato nei corpi del manas, del kama e del fisico denso; è questo raggio di consapevolezza che dà unità all’individuo, non è l’ahamkara il quale è instabile per sua natura, né i guna che sono movimento. Ma prima di parlare della sudditanza di questo “raggio di consapevolezza” verso l’oggetto esterno occorre retrocedere e comprendere il giusto accostamento con l’oggetto interno (guna – veicoli) che, visto dalla prospettiva del jivatman, è anch’esso un semplice oggetto di percezione.

L’oggetto esterno è il fenomeno-manifestazione, è il mondo dei nomi e delle forme; quello interno, cioè il soggetto, comprende le varie ideazioni, proiezioni e quindi gli stessi veicoli, dal piano fisico denso all’ananda. Ora l’intera manifestazione (i tre stati dell’Essere – si veda Mandukya Upanisad: Virat, Hiranyagarbha, Isvara) i piani grossolano, sottile, causale hanno una loro realtà relativa nei confronti del Brahman supremo, sono modalità esistenziali per cui l’ente è libero di muoversi lungo questi stati, dipende dalla sua scelta, ma per muoversi occorre che si trovi in una condizione di libertà dal “secondo”, sia di ordine sensibile sia intelligibile. Per il Vedanta il mondo dei nomi e delle forme non è né positivo né negativo, esso è ciò che dev’essere, non è il nulla in assoluto come le corna di una lepre o il figlio di una donna sterile (vedi Sankara nei bhasya), ma neanche la realtà suprema che trova in la sua ragion d’essere. Per avere il giusto rapporto con l’oggetto interno si ha di fronte quella “sentenza” di Delfi; col conoscere se stessi per quello che si è, si mettono al loro giusto posto sia l’oggetto esterno sia quello interno, cioè il soggetto. Così, con la conoscenza di sé (è lo jnana marga-gnosis), si delinea in modo compiuto il destino del jiva e del suo iter di “salvezza”; destino la cui soluzione va demandata allo stesso essere e non ad altri, chiunque essi siano. Di qui la differenza tra l’aspetto religioso (piccoli Misteri) e quello di conoscenza filosofica catartica (grandi Misteri), oppure aparavidya, e paravidya.

Le presenti Upanisad mirano tutte, sia con l’aspetto rituale-sacrificale, sia mediante la conoscenza filosofica catartica (paravidya), alla realizzazione dell’Essere-Isvara ontologico, oppure del Brahman supremo che, si è visto, rappresenta il fondamento per cui l’Essere stesso può avere la sua ragion d’essere e, di conseguenza, tutto ciò che da esso deriva. Il messaggio delle Upanisad, apparentemente pessimistico, fin dall’inizio della ricerca dà, invece, la certezza all’ente, postosi in condizione alienata nei confronti della generazione, di riconoscere:

“Tu jivatman sei Quello”
la realtà senza secondo.

 

“ … Quello è questo Brahman, senza antecedente né conseguente,

senza interno e senza esterno: questo atman,

mediante cui si conosce il tutto, è il Brahman.

Questo è l’insegnamento ”.

Brhadaranyaka Upanisad II.V.19


Per gli uomini la mente è causa di schiavitù o di liberazione:

quando è congiunta con gli oggetti [porta] alla

schiavitù, quando è priva di oggetti è chiamata liberazione “.

Maitry Upanisad VI.34.11


Da quanto sopra ne deriva che il jivatman non è tale per partecipazione all’Essere supremo, ciò che implica una dipendenza da altro, ma è sul piano d’identità. Partecipazione può essere detto della prakrti che dipende da Isvara, l’Essere ontologico, per quanto Questi è di là dalla Prakrti e dal suo movimento, esso è nirvicara, immutabile; Isvara è un raggio del Brahman nirguna, tra i due non vi è né opposizione né differenziazione, sono due momenti dialettici che operano con proprie specifiche proprietà. Il jivatman è atto non potenza e per essere non deve “pensare di essere” (ciò che invece avviene per l’ahamkara), non è tramite il pensiero che il jivatman attua il suo essere. La consapevolezza umana inerente al jiva è qualcosa di più del pensiero.

da “UPANISAD” – a cura di Raphael; Edizione Bompiani – (dalle “Note Conclusive”)

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