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251. Il mantra come veicolo di coscienza … di Pierluigi Gallo

 

Il mantra come veicolo di coscienza
nella tradizione indotibetana

 

L’incontro odierno è dedicato al mantra, inteso come anello di congiunzione fra la dimensione magica e quella contemplativa: questo concetto è molto importante per capire sia il discorso che abbiamo fatto fino adesso, sia quello che faremo in seguito.
Noi infatti abbiamo parlato fino adesso di dimensione magica dell’esperienza religiosa e musicale: nelle popolazioni che abbiamo visto finora il contatto con l’ignoto (per usare questo termine senza dare ad esso altre connotazioni) avviene cioè attraverso un rapporto di tipo magico, e di conseguenza anche l’uso degli strumenti rituali, dei particolari timbri vocali, di tutta la loro simbologia risente di questa componente magica.
Quando da questa dimensione passiamo ad una dimensione di tipo contemplativo, non ci troviamo più di fronte ad una ritualità “evocativa” legata alle forze, bensì ad una spiritualità “invocativa”, nella quale il rapporto con il Divino non è più basato sul dominio e la padronanza di determinate forze, ma sulla creazione di un rapporto con un “polo esterno” superiore, con il quale entrare in contatto attraverso un processo graduale di purificazione e di trasformazione interiore (la cosiddetta sadhana, cioè la disciplina spirituale). Di conseguenza si sviluppa una traiettoria diversa, ci si comincia per così dire a rivolgere verso l’alto, attraverso un percorso che può correre sia all’interno delle confessioni religiose tradizionali sia al loro esterno, parallelamente ad esse: abbiamo così il cammino mistico per eccellenza.

Il punto d’incontro fra queste due dimensioni si manifesta in modo molto netto all’interno della tradizione tibetana, nella quale sono presenti, sia da un punto di vista artistico che religioso, forti elementi di tipo magico-sciamanico (risalenti, come abbiamo altre volte accennato, alla tradizione prebuddhista locale, il Bon) unitamente ad elementi propri di una religione superiore di tipo “contemplativo”, qual’è appunto quella buddhista, proveniente dall’India: il risultato più evidente di questa fusione è fornito dal Tantrismo, massima espressione dell’esoterismo e dell’occultismo tibetani, esistente in forma analoga anche nell’Induismo bengalese, e l’espressione acustica di ciò è rappresentata dal fenomeno del mantra.
Il valore magico della voce umana è d’altra parte un concetto molto diffuso già in tutte le tradizioni di tipo magico, dove ritroviamo l’idea di “parola di potenza”, della parola che ha una sua effettiva carica magica, una sua effettiva capacità di azione, addirittura a livello fisico. Nelle tradizioni di tipo magico-sciamanico si usano infatti determinati canti ed intonazioni di voce particolari (come le cosiddette “maschere della voce”, le imitazioni dei versi degli animali o del suono degli elementi naturali) per evocare quelle forze con le quali si vuole in tal modo entrare in contatto: quella magica è infatti una dimensione tendente ad evocare ed a risvegliare delle forze, ed a rapportarsi ad esse, padroneggiandole.
Quando dunque parliamo di ritualità tibetana ci riferiamo a forme di culto a carattere magico-sciamanico, basate su uno scambio reciproco col vasto regno delle forze, degli spiriti e delle entità che circondano l’uomo, sulle quali si sono successivamente innestate la filosofia e la spiritualità buddhiste, che dall’India hanno introdotto in Tibet una concezione religiosa ed una metafisica altamente speculative, nelle quali il concetto di mantra riveste un’importanza particolare.

Per meglio introdurre questo concetto mi avvarrò ora di una breve nota esplicativa, da me scritta tempo addietro per una rivista del settore:
Fra i tanti concetti filosofici e spirituali che dall’India sono pervenuti in Occidente, uno dei più famosi e conosciuti è senz’altro quello di mantra,  termine sanscrito con il quale s’intende, fra gli altri significati, una parola, un suono o una vibrazione dotata di una particolare forza spirituale, magica o sacrale, la cui mistica risonanza si ritiene abbia un effetto diretto sulla psiche dell’individuo e addirittura sulla materia, favorendo la concentrazione della mente ed evocando nell’anima di chi recita e di chi ascolta le qualità spirituali  proprie della Forma Divina (Ishta Devata) alla quale esso è associato.
E’ questo il caso, ad esempio, di alcuni grandi mantra dell’Induismo, come il vishnuita Hare Krishna, Hare Rama e lo shivaita Om Nama Shivaya, che i devoti indù recitano in apertura ed in chiusura delle cerimonie devozionali o nel corso della meditazione interiore; lo scopo del mantra è in questo caso quello di mantenere fissa l’attenzione della coscienza sull’immagine divina prescelta, sviluppando nell’individuo l’insorgere di un processo di devozione (bhakti) e di purificazione interiore, e sostenendolo nel corso della sua disciplina spirituale (sadhana).
Il concetto di mantra nella tradizione induista è tuttavia molto più esteso. Oltre ai Nomi Divini oggetto dell’adorazione del devoto esso comprende intere strofe dei Veda (slokas) che si ritiene siano risuonate direttamente dai Cieli alle orecchie degli antichi veggenti (rishi), oppure lunghe serie di monosillabi a carattere magico e rituale, associate con i vari centri sottili dell’essere umano (chakras) e con tutto l’insieme di correlazioni astrologiche, filosofiche, matematiche e musicali che costituiscono l’universo mitico e simbolico del pensiero indiano.
Uno degli aspetti principali del mantra, sui quali raramente ci si sofferma, è tuttavia costituito  dalla sua componente acustica, che ne rappresenta per molti versi l’essenza più intima ed il vero segreto della potenza: un determinato mantra è efficace, secondo la tradizione vedica, solo se intonato nella maniera giusta, e ciò perché la sua forza risiede proprio nel suono, nella risonanza, nella vibrazione acustica prodotta, ancor prima che nel suo significato verbale o concettuale.
Ciò risulta particolarmente evidente nell’intonazione cerimoniale dei mantra vedici effettuata dai brahmini tra le  pareti dei templi, quando riecheggiano, “scagliate come dardi luminosi” (per usare appunto una terminologia vedica), le magiche sonorità metalliche e cristalline degli antichi mantra, effetto congiunto di una corretta intonazione di voce e della particolare acustica della sala. In ogni tradizione religiosa la sacralità del canto è infatti direttamente collegata alla sua sonorità, in virtù della quale nel corso dei secoli gli stessi edifici religiosi sono stati costruiti e le stesse cerimonie sono state create, ed il valore magico e rituale del suono, inteso come “sacro ponte”, come mezzo di collegamento fra la sfera umana e quella divina, è testimoniato dall’insegnamento spirituale di molte tradizioni, prima fra tutte la nostra. Come afferma infatti il Prologo di Giovanni: “In principio era il Verbo, ed il Verbo era presso Dio, ed il Verbo era Dio.”
Non possiamo tralasciare, a questo proposito, un pur breve cenno al mantra Om, considerato come la vera e propria “pietra di volta” dell’intera spiritualità indù. Nell’Om sono contenuti secondo le Upanishad tutti i significati spirituali dei singoli mantra, dei quali è radice e seme (bija), essendo una diretta emanazione del “Suono Cosmico Primordiale”, della “Parola Creatrice” che risuonò in origine per l’intero universo. In questo senso esso è il Pranava, il “Suono Eterno”, senza principio e senza fine, che incessantemente vibra negli atomi e negli elettroni del mondo materiale, del quale costituisce il fondamento acustico e vibratorio. Come dicono infatti le Upanishad: “l’Essenza dell’Uomo è la Parola, l’Essenza della Parola sono i Veda, l’Essenza dei Veda è il Sama Veda, l’Essenza del Sama Veda è l’Om.
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Abbiamo visto in questa definizione come per mantra s’intenda, tra le altre cose, anche il nome di una particolare entità, di una particolare forza, di un particolare aspetto dell’esistenza o dell’individuo stesso, nome spesso segreto, nascosto, celato. Pensiamo al cosiddetto “nome iniziatico” od esoterico, che si assume al momento dell’iniziazione, della consacrazione religiosa o della presa dei voti, a simboleggiare la nascita dell’”uomo nuovo”, del nuovo status raggiunto, il cui valore acustico è, specialmente in Oriente, particolarmente sottolineato. In ognuno di noi c’è infatti un nome esoterico, segreto, che però non ci appartiene così come siamo, al livello della cosiddetta “personalità apparente”, bensì ad un livello animico; quel nome non è infatti il nome della personalità presente, bensì il nome dell’Atman, del Sè, che risuona ad un certo livello animico, raggiunto il quale l’individuo vi si identifica perché entra in risonanza con esso. Quando di conseguenza l’individuo raggiunge quel livello animico, quando raggiunge l’iniziazione, la “nuova nascita”, allora riceve quel nome, non prima; ecco perché a livello simbolico i religiosi di tutte le tradizioni (monaci, sannyasin, sadhus, ecc.), al momento della consacrazione cambiano nome.
Tutto ciò deve essere inteso anche in senso strettamente acustico, nel senso cioè che nel suono stesso di quel nome è contenuta l’essenza vera e propria del suo significato; si verifica così un’identità fra ciò che dallo strutturalismo è chiamato il significante (cioè la parola) ed il significato (cioè il concetto che essa esprime). In tutte le antiche tradizioni c’è infatti sempre stato un collegamento molto forte fra le lettere dell’alfabeto, le note, i pianeti, la loro simbologia, ecc., ed in questo collegamento la sfera acustica riveste un’importanza fondamentale, perché direttamente collegata con il concetto di “risonanza”, così com’è espresso ad esempio dall’esoterismo pitagorico (tema questo sul quale ritorneremo in seguito).

Ma il mantra rappresenta anche, molto più semplicemente, il Nome di Dio, il nome di una determinata forma divina oggetto di devozione e di adorazione, cui viene associata l’immagine per favorire l’assorbimento nel processo della contemplazione; in questo caso si parla di aspetto formale del Divino (Saguna Brahman), mentre diversamente si parla di aspetto informale del Divino (Nirguna Brahman): quest’ultimo rappresenterebbe in un certo senso il “Dio unico”, mentre le sue varie manifestazioni rappresenterebbero i suoi diversi aspetti, le sue differenti qualità.
Il presunto politeismo induista è quindi in realtà un monoteismo che si esprime attraverso forme diverse, ognuna delle quali ha un’immagine, un nome ed un suono a lei propri; Shiva ad esempio ha un determinato nome e rappresenta un determinata qualità del Divino, Krishna ha un altro nome e rappresenta un altro aspetto: non abbiamo quindi tanti dèi, ma tanti aspetti di un unico Dio, ognuno dei quali ha una sua propria valenza acustica. Nel momento in cui il devoto si immerge nel suono e nella forma del Divino avviene dunque un’identificazione, un’identità, poiché la mente viene imbevuta e si impregna di questo nome, e la coscienza si assorbe in questa contemplazione; come quando si inserisce una marcia i due dischi del volano si agganciano e cominciano a girare insieme, allo stesso modo, grazie alla ripetizione del Nome, la mente viene assorbita in Dio e si unisce a lui.
Naturalmente la ripetizione del mantra non è sufficiente di per se stessa, ma deve essere unita ad una certa disposizione interiore, a quella che gli indù chiamano bhakti, cioè devozione, concetto che ritroviamo anche in analoghe forme di preghiera cristiana occidentale (pensiamo al rosario mariano o al Sacro Cuore di Gesù, che non a caso vengono anch'esse chiamate “devozioni”) e soprattutto orientale (pensiamo alla tradizione esicasta dell’Oriente cristiano ed alla famosa Preghiera di Gesù), nonché nelle pratiche contemplative del sufismo islamico, prima fra tutte quella dello dzikhr (che significa letteralmente “memoria del Divino”).

Il mantra dunque si associa all’immagine, si associa al respiro, e diviene come un flusso che trascina la persona, aiutandola a creare un contatto, a fare un’esperienza: il punto centrale di tutta la spiritualità contemplativa è infatti quello di ottenere un’esperienza. Per questo la spiritualità contemplativa è risultata molto spesso “eterodossa” rispetto alle confessioni religiose istituzionali, poiché l’esperienza ha una sua validità di per , che non sempre può essere ricondotta alle categorie della fede, così come sono espresse a livello confessionale; quando infatti si compie un’esperienza ci si mette in relazione direttamente con essa, e non sempre ciò coincide con la testimonianza confessionale, o vi coincide solo parzialmente: non sempre il dogma può essere confermato dall’esperienza, e viceversa non sempre l’esperienza può trovare riscontro nel dogma.
Ciò avviene anche a livello artistico. Ad esempio l’Islam tradizionale ufficiale, rifacendosi ad alcune affermazioni del Profeta contenute nel Corano, non vede di buon occhio le forme di espressione artistica, sia all’interno delle moschee (dove come si sa è vietata ogni forma di rappresentazione figurativa e di musica strumentale), che anche all’esterno di esse; il sufismo però è pieno di forme di espressione artistica, dalle danze dervisce alle musiche qawali pakistane, a testimonianza della presenza di una tradizione parallela nella quale rientrano quegli elementi emarginati dalla religiosità ortodossa.
Ciò è accaduto anche in Occidente (come vedremo meglio quando tratteremo il Cristianesimo medievale): tutti noi abbiamo ad esempio studiato a scuola l’amor cortese, la poesia provenzale, e conosciamo la sua importanza nella nascita delle lingue nazionali e del volgare italiano, ma forse non tutti sappiamo che la lirica provenzale rappresenta un discorso esoterico preciso (rintracciabile anche nella tradizione induista ed islamica) relativo alla trasformazione animica ed all’elevazione spirituale compiuta tramite la dama ed il femminile, e fu espressione di una cultura, quella catara ed albigese, che dalla Chiesa del tempo fu dichiarata eretica e sterminata completamente.
Ecco quindi come un discorso in apparenza di tipo esclusivamente culturale od artistico presenti dei risvolti nascosti di tutt’altra natura; d’altra parte le forme d’arte sono profondamente legate all’esperienza interiore, della quale sono espressione, ed un discorso sull’arte non può prescindere da un discorso sull’ispirazione che ne è alla base.

Torniamo adesso al mantra, cominciando ad ascoltarne qualche esempio, partendo dall’India: il primo esempio che sentiremo è il Ganapati mantra, dedicato a Ganesha, il dio dalla testa di elefante, “colui che rimuove gli ostacoli”, con il quale si iniziano tutte le funzioni, in quanto ritenuto propizio e di buon auspicio; seguiranno il Saraswati mantra, dedicato alla dea della saggezza e della conoscenza, ed il Lakshmi mantra, dedicato alla dea della bellezza e della prosperità.
Come sentirete vi è una profonda differenza a livello acustico fra il mantra così come viene inteso nell’Induismo e come viene invece inteso nella tradizione tibetana; nei Veda infatti il mantra rappresenta un’offerta, una forma di “sacrificio sonoro”, che presso le antiche popolazioni ariane indoeuropee sostituì i primitivi sacrifici animali, di modo che all’offerta di esseri senzienti viene sostituita l’offerta del suono.
Un esempio di ciò lo ritroviamo nella grande festa induista di Dassera, dedicata al culto della Divina Madre, durante la quale per nove giorni consecutivi i brahmini gettano nel fuoco sacro il ghee, cioè il burro chiarificato (che rappresenta l’anima del devoto scremata da ogni impurità), accompagnandosi continuamente con la recitazione dei sacri mantra, che vengono anch’essi “gettati” nel fuoco per purificare, attraverso il fumo che sale verso il cielo, l’intera atmosfera terrestre. In India il mantra è dunque una forma di invocazione, di intonazione e di recitazione sacra; addirittura vengono considerate tali intere strofe delle sacre scritture, dei Veda, delle Upanishad, perché si ritiene che la loro recitazione appropriata abbia un effetto preciso (che potremmo quasi definire “magico”), contenuto per l’appunto nel suono stesso, in funzione del quale vengono costruiti gli stessi templi (cosa questa peraltro comune a tutte le diverse tradizioni religiose) al fine di amplificarne il volume e di ottenere un effetto acustico di risonanza, un “ambiente” adatto entro il quale lasciare libero il suono.

Voglio leggervi a questo proposito un brano tratto da un interessante testo di Osho Rajneesh, dal titolo I misteri occulti dell’Oriente, nel quale egli affronta l’argomento del suono e della sua importanza nella costruzione degli antichi templi indiani; in esso appare il Rajneesh intellettuale, il professore, l’uomo di cultura, molto attento ed acuto nella sua analisi, che è l’aspetto della sua figura che personalmente preferisco. Leggiamo dunque insieme:
L’acustica e l’architettura di un tempio hanno un profondo legame; il tempio infatti è per così dire un “trattato sul suono”. Esiste una regola precisa per fissare l’angolo da cui un suono debba essere prodotto; inoltre esistono regole che fissano quale suono debba essere prodotto quando si è in piedi e quale nella posizione seduta. Vengono addirittura specificati quali suoni debbano essere prodotti stando sdraiati, perché la forza d’impatto sarà diversa a seconda delle posizioni utilizzate: in piedi, seduti o sdraiati. Esistono inoltre delle regole precise per stabilire quali suoni debbano essere emessi insieme e quali separatamente.
(A questo proposito voglio citarvi l’esempio di un compositore americano contemporaneo, La Monte Young, che ha composto un brano di musica elettronica, Drift Study 14 VII '73, sfruttando determinate frequenze, in modo che il suo ascolto risulti diverso a seconda che ci si alzi, ci si abbassi o si cammini per la stanza, cambiando cioè a seconda della posizione in cui ci si trova).
E’ molto interessante,
continua Rajneesh, osservare che cosa accadde allorchè i Veda vennero tradotti nelle lingue occidentali. In Occidente l’enfasi di una lingua è focalizzato sul significato di una parola, e non sul suo suono; al contrario nella prospettiva vedica non si dà molta importanza a cosa significa una parola, scritta o orale, ma ci si preoccupa invece di quale suono specifico una parola debba produrre e quindi della composizione di quel suono. Pertanto l’enfasi nella lingua sanscrita è posta più sull’aspetto fonetico che su quello linguistico, più sul suono che sulla parola. Ecco perché per migliaia di anni si ebbe il chiaro sentire che questi preziosi testi sacri non dovessero essere scritti; era naturale che nel processo stesso dello scrivere l’enfasi cambiasse. Pertanto era consuetudine che questi testi fossero tramandati di generazione in generazione dal maestro al discepolo a viva voce piuttosto che in libri. (...)
Ad esempio, la questione del famoso mantra tibetano “Om Mani Padme Hum” non si pone, perché il suo senso è del tutto fonetico. Allo stesso modo non esiste nessuna questione di significato nel mantra “Aum”, poiché esso non ha alcun significato: si tratta solo di un suono la cui produzione crea effetti particolari. Quando un ricercatore spirituale ripete consecutivamente “Aum Mani Padme Hum” più e più volte, il suono influisce sui suoi diversi chakra che incominciano ad attivarsi: ciò che conta non è il significato, bensì i suoni stessi. E’ questa la cosa essenziale.
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Esattamente il contrario di quanto viene qui detto da Rajneesh viene viceversa affermato dal Lama Anagarika Govinda, una delle massime autorità nel campo del misticismo tibetano, secondo il quale non ha alcuna importanza il suono di un determinato mantra, bensì il suo significato e la condizione interiore di colui che lo pronuncia. Ciò è molto interessante, poiché forse, fra questi due estremi, potremo riuscire a trovare la verità. Infatti non è vero che non vi sia alcun significato nel mantra e tanto meno che non ve ne sia nel mantra Om, il cui simbolismo cosmologico e cosmogonico è per la tradizione indù, come vedremo, enorme: quel che in realtà qui Rajneesh sembra voler dire, estremizzando com'è sua abitudine, è che qualunque significato si voglia attribuire ad un mantra esso non ha forza se non ha un suono, se non ha una sua espressione, una sua manifestazione, attraverso la quale si crea l’effetto, altrimenti inesistente: non si tratta quindi di un discorso concettuale, ma di una forza acustica che viene attivata.
Sarà ad esempio capitato anche a voi di partecipare qualche volta alla recita del rosario durante i vespri, allorquando questa preghiera collettiva assume in certe chiese una vera e propria forma acustica, divenendo un vero e proprio flusso sonoro, attraverso la risonanza che si crea nell’ambiente (elemento questo maggiormente presente in passato, quando nella Chiesa cattolica vi era la liturgia latina, una liturgia cantata e non recitata).
Questo concetto diviene ancora più importante se noi lo trasportiamo dall’esterno all’interno del nostro corpo, del nostro corpo inteso come “tempio”; in tal modo appare più chiaro il vero significato del mantra, della risonanza, dello scendere dentro se stessi ed il valore che il suono ha per aiutare questa discesa nel tempio, questa “contemplazione” (lett. “insieme nel tempio”). Entrare dentro il tempio interiore significa infatti mettersi in ascolto del Sè, lasciar ri-suonare dal profondo il Nome Supremo di Dio: questa risonanza interiore (che nella tradizione ebraica corrisponde allo Shem Hamephorash, il Nome Impronunciabile dell’Eterno) viene identificata nell’Induismo con il Pranava Om, il Suono Eterno, sulla cui fondamentale valenza acustica ritorneremo più volte nel corso di questo incontro e di quelli successivi.

Una funzione di purificazione ad un livello quasi fisico della stessa crosta terrestre viene svolta, viceversa, dai mantra e dalle cerimonie tantriche tibetane. Come abbiamo già detto, il Tantrismo è l’espressione massima dell’occultismo tibetano; purtroppo questa parola in Occidente viene spesso fraintesa, poiché identificata con tutto quell’insieme di pratiche più o meno stregonesche, la cui vasta gamma va dal grottesco al tragico, che circondano ed avviluppano l’immaginario collettivo, specie delle menti più deboli ed influenzabili, attraverso un’azione di tipo irrazionale a sfondo bassamente materialistico. Tutt’altra cosa è evidentemente l’occultismo praticato dalle antiche tradizioni esoteriche del passato, all’interno delle quali esso costituisce l’espressione di una conoscenza profonda delle leggi, delle verità e delle funzioni nascoste che regolano l’esistenza umana ed universale: in questo senso l’occultismo non è inteso quindi come un mezzo per agire sugli altri o per manipolarne le coscienze, ma come uno strumento di conoscenza per addentrarsi all’interno del grande mistero dell’esistenza, conoscendone e contattandonene le leggi nascoste ed operando di conseguenza una trasformazione profonda della propria vita.
Ascolteremo adesso un esempio di musica cerimoniale tibetana, nella quale compaiono le grandi trombe telescopiche (così chiamate perché composte di diverse sezioni che, come i telescopi, rientrano l’una nell’altra), precedute da una lunga intonazione collettiva di mantra tantrici: potremo così assistere ad uno strano fenomeno, consistente nell’ascolto di voci che sembrano strumenti, seguite da strumenti che sembrano voci, “voci degli dèi” per essere precisi.
Nell’esempio successivo viene eseguito l’Om tantrico, il cui scopo era in passato, secondo un’antica tradizione, quello di occultare il significato di determinati mantra, che dovevano restare segreti per i non iniziati: attualmente il Dalai Lama avrebbe invece dichiarato ufficialmente che, in seguito alla rottura del grande cerchio sacro tibetano ed alla diffusione degli insegnamenti in Occidente, non esisterebbero più mantra segreti e tutto dovrebbe essere rivelato a tutti. D’altra parte, se noi pensiamo all’intimo significato della parola “rivelare” (cioè “velare due volte”), possiamo domandarci se in realtà questo canto dell’Om, utilizzato apparentemente a copertura dei mantra segreti, non avesse piuttosto la funzione esoterica di rivelarne la vera essenza, di natura acustica e non concettuale, portando l’attenzione e la percezione dei partecipanti a concentrarsi non tanto sul significato verbale delle parole, quanto sul loro suono: mai come nel Buddhismo tantrico tibetano, infatti, la potenza della voce e del suono si sono manifestate in maniera così netta ed impressionante, tanto da fare pensare ad una vera e propria “Via del Suono”.

L’uso rituale della voce umana è d’altra parte un fenomeno diffuso in diverse regioni dell’Asia centrale (Tibet, Mongolia, Siberia), dove si nota la presenza di varie forme di canto armonico, che presenta in alcuni casi notevoli affinità con le pratiche di canto sciamanico presenti nella ritualità di tali popolazioni; la dimensione magica di questa espressione vocale è in questo caso particolarmente evidente, com’è  dimostrato dal forte effetto di trance che tali musiche inducono in chi le ascolta, effetto diffusamente ed oggettivamente sperimentato e sperimentabile. E’ un po' come se la mente si sciogliesse, diventasse liquida, come se affiorassero dal profondo tutta una serie di ricordi, di immagini, di memorie, che il suono aiuta a portare alla coscienza: da qui la definizione di mantra come veicolo di coscienza.
Tutto ciò serve infatti perché avvenga in tal modo una purificazione interiore, perché si giunga ad evocare situazioni profonde ed a purificarle. A questo riguardo dobbiamo fare un’importante precisazione: noi abbiamo in Occidente un concetto del termine “purificazione” piuttosto ristretto, poiché identifichiamo generalmente questo termine con quello di “purezza”. Ma quando parliamo di purificazione parliamo in realtà di un processo del quale la purezza rappresenta il risultato finale, per arrivare al quale bisogna di conseguenza lavare, pulire, evocare altrimenti questa purezza non può essere raggiunta: è necessario quindi un processo.
Questa dimensione di purificazione, tipica di tutte le strade contemplative, nel caso del Buddhismo tibetano si esprime prevalentemente attraverso il suono, ed attraverso le immagini che esso evoca (pensiamo ai mandala, ai tanka, al Libro tibetano dei morti, ecc.). Il suono sacro, shabda, ha quindi la funzione di essere un veicolo della coscienza per scendere nel profondo, per evocare immagini interiori; se ad esempio pensiamo al Bardo Thödol non tanto come ad un testo di natura filosofica o religiosa, quanto come ad una vera e propria sceneggiatura di un film, ad un testo che descrive esattamente delle situazioni “viste” direttamente attraverso la contemplazione (cioè vissute dall’anima sotto forma di immagini), possiamo in qualche modo cominciare ad avere un’idea del tipo di dimensione all’interno della quale si muove questa tradizione esoterica e spirituale.
La tradizione tibetana rappresenta infatti l’ultimo esempio di una antica tradizione evocativa propria di altre tradizioni del passato (come quelle precolombiane o quella egizia), nelle quali vi era un forte contatto con l’al di là, con l’oltretomba, i suoi regni e le sue regioni: grazie paradossalmente all’invasione cinese questa tradizione si è sparsa per il pianeta ed ha trasmesso questi messaggi attraverso il suono, la risonanza degli antichi rituali, prima riservati ad una ristretta cerchia iniziatica all’interno della propria etnia.
E’ a questo proposito rimarchevole che il Dalai Lama abbia parlato, riferendosi all’attuale passaggio epocale dell’umanità da uno stadio di coscienza ad un altro, della necessità di una cosiddetta “democratizzazione della luce”, dell’abolizione cioè di tutti i mantra ed i rituali segreti: ciò è molto importante da un punto di vista di principio, perché stabilisce la fine di un’epoca, legata cioè ad una ritualità segreta, non manifesta. Questo non vuol dire evidentemente che non esista più un esoterismo iniziatico o che esso debba necessariamente perdere il suo inevitabile carattere élitario, ma significa che la serietà e la profondità dell'esperienza individuale a carattere mistico od esoterico, pur rimanendo intatta, non deve più essere relegata o collegata ad una situazione di difesa dall’esterno e di chiusura all’interno, secondo un principio di non manifestazione o di autoconservazione, ma deve essere diffusa e divulgata.
Questo non è un concetto condiviso da tutti: ad esempio la scuola tradizionalista di Guénon ritiene che in questo modo tutto quanto vada perduto, ritiene che fosse meglio prima, quando le tradizioni venivano conservate. Questo è in parte vero, ma dobbiamo capire che la conservazione delle tradizioni e la loro conoscenza non è per noi importante in quanto tale (per aderire cioè a questa o quella forma di religiosità, oppure per conservarne inalterata una ritualità ritenuta valida di per se stessa in un senso quasi sacramentale), ma perché si tratta di espressioni diverse di un’esperienza animica comune, che esse testimoniano sotto questa o quella forma; quel che dunque è importante è entrare in contatto con l’esperienza animica che si è espressa sotto questa o quella forma, e non con quella forma in quanto tale. Noi invece tendiamo spesso ad un’adesione incondizionata ad una tradizione esterna, perché abbiamo perso il contatto con la nostra, oppure ci irrigidiamo nella conservazione di un’unica tradizione in senso quasi esclusivo, com’è dimostrato ad esempio dal fenomeno dell’integralismo, in preoccupante crescita un po' dovunque.

Torniamo adesso al Tibet. Per spiegare meglio che cosa s’intenda per purificazione ed evocazione all’interno della tradizione tantrica tibetana, voglio farvi a questo punto un esempio preciso: quando il corpo muore, quando la persona muore, secondo le dottrine di tutte le varie religioni bisogna aiutare l’anima a staccarsi dagli attaccamenti affettivi ed ai desideri che la legano alla sfera terrestre ed al corpo stesso, e portarla verso quella che i Tibetani chiamano la Chiara Luce (questo è anche un po' il significato della nostra preghiera per le anime del Purgatorio, della preghiera per i morti).
Che cosa fanno nel caso specifico i monaci tibetani? Attraverso i suoni, i mantra e gli strumenti rituali essi creano un “rete” di suono estremamente intensa, estremamente forte ed in un certo senso aggressiva, per riuscire ad entrare nel corpo fisico, per entrare all’interno delle ossa e così “lavare”, pulire, purificare il corpo dalle scorie karmiche. Se voi ad esempio vi lasciate andare ad ascoltare le musiche tantriche tibetane, le orchestre od i mantra cerimoniali, vi trovate proiettati all’interno di una esperienza molto forte, vi trovate immersi in una specie di “cascata sonora”, in un torrente in piena che vi passa letteralmente attraverso il corpo, entrando dentro questo “tempio” e lì risuonando, mettendo in risonanza tutto ciò che vi è contenuto. Se noi infatti riusciamo ad entrare dentro il tempio interiore, dentro il tempio del nostro corpo, noi vi ritroviamo mille situazioni, mille esperienze, mille ricordi: e questi ricordi ci sono da vivi, ma ci sono anche da morti.
Il compito specifico dei monaci tibetani, il loro “servizio”, è quindi quello di purificare l’atmosfera animica della terra, agendo sul corpo fisico dei defunti; come dicono alcune tradizioni antiche, se i monaci non compissero questi rituali, se essi non cantassero in continuazione i sacri mantra, l’atmosfera terrestre sarebbe a livello animico talmente carica di scorie e di negatività che a quest’ora l’aria stessa diverrebbe irrespirabile. A ciò è dunque collegato il concetto di evocazione, inteso in questo caso non tanto come una catarsi di tipo per così dire dionisiaco, quanto come una specie di “pozzo animico” dal quale cominciare a tirar su, ad evocare situazioni rimosse o dimenticate, che vanno di conseguenza purificate.

I monaci tibetani sono infatti legati a delle energie molto forti, essendo il Tibet considerato come uno dei grandi centri occulti della terra, dal quale partì ad esempio la stessa rinascita dell'esoterismo in Occidente, cominciata nel secolo scorso grazie all’azione della famosa Madamme Blavatsky, la fondatrice della Società Teosofica, che si recò più volte nel “Paese delle Nevi” e da lì trasse tutte le sue informazioni, riunite successivamente nel famoso testo La Dottrina Segreta.
E' dunque a questo centro esoterico che dobbiamo riferirci quando vogliamo ritrovare la fonte primaria delle varie tradizioni occulte sparse per il pianeta: esso comunica in via privilegiata attraverso il suono, mediante il quale trasmette esperienze e non concetti. Così afferma infatti il Lama Anagarika Govinda, con il quale chiudiamo il nostro incontro:
Consentono esperienze spontanee che coinvolgono tutto il nostro essere (...) i grandi rituali tibetani che, quali meditazioni drammatizzate, nella loro immediatezza, al di là di ogni razionalità, fanno vibrare insieme gli strati più profondi della nostra coscienza. Così nelle note profonde della musica del tempio, che ricordano il mantra Om, il suono universale, noi sperimentiamo l'elementare: le rocce ed i monti, la vastità degli altipiani del Tibet, il ruggito del mare. Negli oboi riconosciamo la voce umana e nelle note altissime, superiori a quelle della voce umana, pre-sentiamo come la vita  si rispecchi in tutte le forme ed in tutti i fenomeni, condizionandoli e collegandoli fra loro, e come sullo sfondo che abbraccia e supporta il Tutto tutto si muova incessantemente.
La meditazione tantrica non è un evento statico, è un evento dinamico. Figure terrificanti e figure pacificanti si compenetrano trasformandosi l'una nell'altra, perché le potenze divine e quelle demoniache non sono sostanzialmente diverse: sono soltanto aspetti diversi della stessa energia. Quando avvertiamo bontà e bellezza noi ci sentiamo affini agli dèi, mentre l'altro aspetto del Divino ci spaventa, come le forze della natura, che da un lato avvertiamo benefiche e dall'altro ostili. (...)
Ma ogni forza agisce senza intenzione, cioè al di là dei giudizi di buono o cattivo. Così la meditazione, essendo un processo dinamico, un processo della coscienza, libera forze che si manifestano sotto forma di dèi o di demoni, che infondono pace o che incutono timore: una volta sperimentato questo, l'uomo si rende conto che nulla è mai fermo. Tutto è in costante movimento. (...)
Allora ci rendiamo conto del fatto che non siamo isolati, ma che la nostra coscienza arriva più in là di quanto supponessimo: constatiamo di essere parte della coscienza universale (...) ed avvertiamo nella nostra coscienza la coscienza di tutti gli esseri.
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tratto da “Musica dal Profondo: il Suono come Esperienza Animica” di Pierluigi Gallo

 

 

 

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