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448. Il viaggio postumo dell’anima di Stanislav e Christina Grof

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In tempi recenti e per vie diverse il pensiero occidentale sembra aver evidenziato un recupero di attenzione verso il morire e tutto ciò che immediatamente fa precede e fa segue. Su tutti questi argomenti riflette, attraverso parole ed immagini, il libro Beyond death. The gates of consciousness, di Cristina e Stanislav Grof, autore quest’ultimo da annoverare tra i massimi esperti mondiali per quanto concerne l’uso di sostanze psichedeliche.
Le immagini delle dimore dei beati e dei dannati rappresentano soltanto uno degli aspetti dell’Aldilà.
La maggior parte delle culture contempla anche il concetto di viaggio postumo dell’anima. I defunti non sono trasportati direttamente alla destinazione finale; dapprima essi devono sottostare a una serie di insolite avventure, prove e ordalie. A volte queste avventure implicano un viaggio attraverso paesaggi perigliosi non dissimili dai deserti, dalle paludi, dalle giungle o dalle montagne terrestri. L’anima può trovarsi a incontrare e combattere diversi esseri strani e creature fantastiche.
In altri casi, lo scenario dell’Aldilà assomiglia ben poco a qualcosa di conosciuto sulla terra. Gli stadi del viaggio postumo possono anche essere rappresentati come sequenze di stati mentali insoliti, più o meno astratti, invece che come luoghi e incontri concreti. Un tema che ricorre con una certa frequenza nelle avventure dell’anima nel corso dell’altra vita, è quello del Giudizio Divino, presente in varie forme non soltanto nelle tradizioni giudaica, cristiana, musulmana, egizia e zoroastriana, ma anche nei paesi orientali, come India, Giappone, Cina e Tibet e nelle regioni mesoamericane. Se alcune delle descrizioni del viaggio dell’anima appaiono semplici e ingenue, altre offrono mappe complesse e sofisticate di stati di coscienza insoliti. Nell’induismo, nel buddismo e nel giainismo, il viaggio è integrato in schemi cosmologici e antologici elaborati che prevedono cicli di morte e rinascita, serie di reincarnazioni individuali e la legge del karma, il bilancio dei debiti e crediti trascinano nel corso delle vite successive.
Nella storia dell’umanità, due culture hanno mostrato un interesse particolarmente intenso nei confronti della morte e dei morenti: gli antichi egizi e i tibetani. I sacerdoti di queste due culture condividevano una fede profonda nella continuazione della coscienza dopo la morte fisica. Essi sviluppano rituali elaborati per facilitare il passaggio dei defunti all’Aldilà e tracciarono complesse carte che servivano da guida per il viaggio dell’anima. Le forme scritte di questi insegnamenti sono note in Occidente come i Libri dei morti egiziano e tibetano. Si tratta di documenti tanto importanti da meritare una disamina particolare in questo contesto. Il libro dei morti egiziano prende spunto da una collezione di preghiere, incantesimi, formule magiche e racconti mitologici relativi alla morte e alla vita dopo la morte. Questi testi funerari erano noti in Egitto come Pert em hru, espressione di solito tradotta in “Manifestazione della Luce” o “Avanzare nel Giorno”. Il materiale esposto nei testi è eterogeneo e riflette il conflitto storico tra due potenti tradizioni religiose: i sacerdoti del dio sole Amen-Ra e i seguaci di Osiride. Da una parte, i testi enfatizzano il ruolo del dio sole e del suo corteo divino. Ci si aspettava che la conoscenza delle formule sacre che essi offrivano fornisse ai defunti i mezzi magici per unirsi all’equipaggio della chiatta solare e godere per l’eternità di una vita beata alla presenza del dio sole, accompagnandolo nel suo viaggio. Dall’altra parte, i testi riflettono la tradizione dell’antico dio mortuario Osiride che, secondo le leggende, fu ucciso da suo fratello, Set, e resuscitato dalle sue due sorelle, Iside e Nefti. Dopo essere stato riportato in vita, egli divenne il dominatore del mondo ultraterreno. In questa tradizione, i defunti venivano ritualmente identificati con Osiride, e potevano essere riportati alla vita.
Il dio sole, Amen-Ra, durante il suo viaggio diurno e notturno, era coinvolto in una complessa serie di avventure. Durante il giorno, egli attraversava il cielo sulla chiatta solare: nelle ore notturne transitava nelle regioni del mondo ultraterreno, o Tuat. Gli antichi egizi credevano che la terra fosse piatta e che tutto il mondo abitabile, cioè l’Egitto, fosse circondato da una catena di monti altissimi e invalicabili. Il sole sorgeva al mattino da un’apertura situata nella parte orientale di questa catena montuosa e la sera scompariva in un altro pertugio a occidente. Oltre i monti si trovava la regione della Tuat: correva parallela alle montagne ed era posta a livello della terra o del cielo sopra di essa. Oltre la Tuat sorgeva un’altra catena montuosa, così che il mondo ultraterreno era situato in una valle. In questo modo, esso era separato sia dall’Egitto sia dagli altri (il sole, la luna, le stelle) che illuminavano il cielo. Era un paese di tenebra e oscurità eterne, e un luogo di paura e orrore. La Tuat era divisa in dodici regioni, una per ogni ora della notte. Ciascuna regione era provvista di una porta protetta da tre divinità guardiane e presentava percoli specifici per i membri dell’equipaggio solare. Essi dovevano attraversare luoghi infuocati, dove il caldo e il vapore distruggevano le narici e le bocche. Creature fantastiche ed esseri terrificanti li minacciavano al loro passaggio, ed essi dovevano sopraffarli. Il nemico supremo del dio sole era il gigantesco serpente Aapep (incarnazione del fratello di Osiride, Set), che tentava ripetutamente di divorare il disco solare.
Una regione della Tuat, denominata Sekhet Aaru o Campi di Giunco, costituiva il regno di Osiride. Per essere ammessi in questo regno, i defunti dovevano sottostare al giudizio, che aveva luogo nel Salone delle due Verità o Salone di Maat. I cuori dei defunti venivano pesati sui piatti della Grande Bilancia e il contrappeso era costituito da una piuma simboleggiante la dea della Giustizia, Maat. Addetto alla bilancia era il dio dalla testa di sciacallo Anubis, mentre Thoth, lo scrivano degli dei dalla testa di ibis, registrava il verdetto. Il composito mostro Amemet, Divoratore di Anime, che riuniva nella sua forma il leone, il coccodrillo e l’ippopotamo, si ergeva pronto a inghiottire coloro che non riuscivano a superare il giudizio.
La traversata della valle oscura del mondo ultra terreno era rischiosa sia per gli umani sia per gli dei. La certezza di uscire dalla Tuat senza danno era riservata unicamente al dio sole, in quanto il suo trionfo e la sua rinascita si manifestavano ogni mattina, quando il sole sorgeva a oriente. Per i seguaci del dio sole, l’obiettivo della vita ultraterrena era quello di unirsi all’equipaggio solare e accompagnare il dio sole nel suo viaggio per tutta l’eternità. Per i seguaci di Osiride, l’obiettivo era quello di essere trasportati dalla chiatta solare a Sekhet Aaru, il regno del dio re Osiride, dove essi sarebbero sbarcati e avrebbero cercato di superare il giudizio, in modo da poter restare per sempre nel regno di Osiride.
Come l’antica cultura egiziana, anche quella tibetana era completamente orientata in senso spirituale e, fino ad anni piuttosto recenti, ha mantenuto un ricco serbatoio di conoscenze sulle questioni più profonde relative alla vita interiore e al suo senso. Per ogni cultura prevalentemente interessata al senso della vita, lo studio della morte, la sola certezza che la vita ha in serbo per noi, deve essere centrale, poiché la comprensione della morte rappresenta la chiave per la liberazione nel corso della vita.
Secondo la tradizione tibetana, il momento della morte deve essere vissuto in piena consapevolezza, così come consapevoli si deve essere della vita. Per la persona illuminata, il tempo, il luogo e le circostanze della morte non sono più fortuite. La morte è affrontata coscientemente. Lo spirito si trasferisce e il corpo si trasforma negli elementi, così che di esso non rimanga alcuna traccia. Questo fenomeno straordinario, noto come il “Grande Trasferimento”, è eccezionalmente raro. Più comune, ma sempre estremamente raro. Più comune, ma sempre estremamente raro (benché documentato in Cina fino agli anni Cinquanta) è il “Corpo di Arcobaleno”: sette giorni dopo la morte, rimangono soltanto le unghie e i capelli, cioè le impurità, della persona defunta. Se la liberazione non viene conquistata durante la vita, allora le opportunità che permettono di raggiungere devono essere riconosciute subito dopo la morte: è a questo scopo che il Libro dei Morti viene studiato.
Il Libro dei Morti tibetano, o Bardo Thodol, ha un’origine più recente del suo corrispondente egiziano. Benché esso si basi indubitabilmente su una tradizione orale segreta molto più antica, fu espresso per la prima volta in forma scritta nell’ottavo secolo d.C. da Padma Sambhava, che introdusse il buddhismo in Tibet.
Il Bardo Thodol è una guida attraverso i Bardo, o stati intermedi tra la morte e la rinascita. Le informazioni che esso fornisce sono specifiche; indicano addirittura la durata del soggiorno nei vari regni, o stati di coscienza. Il suo scopo è quello di permettere ai defunti di riconoscere come opportunità di liberazione gli stati coi quali si sono già familiarizzati grazie alle esercitazioni. Questo riconoscimento è assimilato a quello di un figlio nei confronti della propria madre e alla pratica esercitate nel corso della vita, nota come “Saggezza del Figlio”, riconosce la “Saggezza della Madre” di Luce e vera chiarezza.
La prima parte del Bardo Thodol, chiamata Chikhai Bardo, descrive l’esperienza di dissoluzione che ha luogo al momento della morte, allorchè i defunti sperimentano la visione accecante della Chiara Luce Primaria della Realtà Pura. In quell’istante, se essi riescono a riconoscere la luce e a non soccombere di fronte alla sua intensità sconvolgente, possono conquistare la liberazione. Coloro ai quali la mancanza di preparazione fa perdere questa occasione, avranno un’altra opportunità più tardi, quando la Chiara Luce Secondaria spunterà su di loro. Se non ce la faranno neppure allora, dovranno sottomettersi alla complessa serie di esperienze dei Bardo successivi, durante i quali la loro coscienza verrà progressivamente estraniata dalla verità liberatrice e si avvicineranno a un’altra rinascita.
Nel Chonyd Bardo o “Bardo dell’Esperienza della Realtà” i trapassati entrano in rapporto con una serie di divinità: le Divinità Pacifiche, avvolte in luci dai colori brillanti, le Divinità Adirate, le Divinità Custodi, le Divinità Detentrici della Conoscenza e gli Yogini dei Quattro Punti Cardinali. Contemporaneamente alle potenti visioni di queste divinità, i trapassati percepiscono deboli luci di vari colori, indicanti i loka individuali, o regni nei quali essi potranno nascere: il regno degli dei (devaloka), il regno dei titani (asuraloka), il regno degli umani (manakaloka), il regno delle creature subumane selvagge (tiryakaloka), il regno degli spiriti affamati (pretaloka) e il regno degli inferi (narakaloka).
L’attrazione verso queste luci ostacolerà la liberazione spirituale e renderà più probabile la rinascita.
Se i trapassati perderanno le opportunità di liberazione offerte nei primi due Bardo, entreranno nel Sidpa Bardo o “Bardo della Ricerca della Rinascita” in cui sperimenteranno i loro corpi Bardo, che non sono composti di grezza materia e sono dotati del potere del moto non ostacolato e della capacità di penetrare gli oggetti solidi. Il documento karmico dei defunti (la somma dei loro debiti o crediti morali) determina se essi, in questo Bardo, sperimenteranno uno stato di felicità o di sofferenza. Coloro che hanno accumulato molto karma negativo subiranno torture inflitte da animali feroci o dalle forze scatenate della natura. Coloro i cui meriti karmici sono dominanti, sperimenteranno piaceri deliziosi, mentre coloro che presentano un karma neutro troveranno, a questo stadio, soltanto stupidità e indifferenza prive di colore.
Un elemento importante di questo Bardo è il giudizio, durante il quale Dharma Raja, Re e Giudice dei Morti, esamina le azioni passate dei defunti con lo specchio del karma. Lo specchio rivela tutte le azioni buone e cattive, che vengono pesate le une contro le altre sotto forma di ciottoli bianchi e neri. Dal cortile, sei sentieri karmici conducono ai vari regni, ai quali i defunti sono assegnati secondo i loro meriti o demeriti. Nel corso del Sidpa Bardo è essenziale che i trapassati si rendano conto che tutti questi esseri ed eventi sono proiezioni delle loro stesse menti. Se questa opportunità non verrà colta, ne conseguirà inevitabilmente una rinascita. Tutto ciò che il Bardo Thodol potrà offrire a quel punto saranno tecniche atte a chiudere le porte dell’utero non desiderato e contribuire alla scelta della rinascita meno sfavorevole. Benché i Libri dei Morti egiziano e tibetano costituiscono sicuramente gli esempi più noti nel loro genere, essi non sono certamente gli unici. Una letteratura analoga è presente in numerose tradizioni: si possono citare per esempio i testi escatologici musulmani, induisti, cinesi, buddisti giapponesi e mesoamericani. In genere è meno noto che anche nella nostra stessa tradizione culturale esistano testi corrispondenti agli antichi Libri dei Morti. Le opere alle quali di solito ci si riferisce globalmente come Ars Moriendi o Arte del Morire, erano piuttosto diffuse nel Medioevo in molti paesi europei, particolarmente in Austria, Germania, Francia e Italia. La letteratura di questo genere si può suddividere in due categorie: la prima comprende libri che trattano l’esperienza della morte e l’arte di guidare i morenti nel loro ultimo viaggio; la seconda comprende testi che trattano l’importanza della morte per la vita. i testi della prima categoria costituiscono un ricco serbatoio di conoscenze riguardo alcuni aspetti importanti dell’esperienza dei morenti. Essi descrivono gli attacchi di Satana, interpretati dalle autorità ecclesiastiche come tentativi delle forze del male di deviare le anime dal loro percorso verso il Paradiso mediante potenti interventi nei momenti più cruciali e strategici. Comune a molti manuali è l’analisi di cinque fra gli attacchi più comuni del Demonio: gravi dubbi nei confronti della fede; disperazione e rimorsi tormentosi; presunzione, vanità e orgoglio; brama, avarizia e altre preoccupazioni e attaccamenti mondani. A queste tentazioni del Diavolo si contrappone l’influenza divina, che offre ai morenti una pregustazione del Paradiso, l’impressione di essere sottoposti al giudizio supremo, la sensazione di ottenere un aiuto più alto e una promessa di redenzione. Le moderne ricerche sulla coscienza hanno dimostrato che molte di queste esperienze vengono veramente vissute da persone che affrontano simbolicamente la morte in esperienze psichedeliche o che soffrono di gravi crisi biologiche. Non vi è dubbio che le descrizioni del momento della morte nella letteratura dell’Ars Moriendi e di altri manuali consimili dovrebbero essere prese seriamente: esse rappresentano mappe empiriche sorprendentemente accurate, piuttosto che arbitrari costrutti immaginari.
Anche i testi che trattano il processo della morte biologica offrono ai morenti e a coloro che stanno loro accanto istruzioni concrete su come affrontare le ultime ore. La maggior parte dei manuali medievali sulla morte concorda sul fatto che è essenziale creare nei morenti la giusta disposizione e il giusto atteggiamento. È assolutamente necessario evitare di instillare false speranze di guarigione. Ai morenti dovrebbe essere offerto tutto il sostegno possibile per aiutarli ad affrontare la morte e ad accettarla. Affrontare coraggiosamente la morte è considerato cruciale: il tentativo di evitarla e la riluttanza ad arrendersi sono visti come i due pericoli maggiori per la persona in punto di morte. Alcuni dei manuali affermano esplicitamente che è meno biasimevole e dannoso che le persone che stanno accanto ai morenti evochino in essi delle paure che in seguito potranno rivelarsi infondate piuttosto che permettere loro di attaccarsi alla negazione e morire impreparati.
La seconda categoria di testi raccolti nell’Ars Moriendi pone l’accento sull’importanza della consapevolezza e della comprensione della morte per poter vivere nel modo giusto. Queste opere si servono di potenti metafore che enfatizzano il concetto della caducità dell’esistenza, dell’onnipresenza della morte e della mancanza di senso in tutte le aspirazioni mondane. Nel recente passato, questa preoccupazione nei confronti della precarietà dell’esistenza espressa dalla contemplazione della morte e dal disprezzo per il mondo, era considerata dagli scienziati occidentali un sintomo di patologia social. Tuttavia, secondo le osservazioni provenienti dalle ricerche su soggetti sottoposti a somministrazione di LSD e da esperienze di psicoterapia, l’essere posti a confronto con gli aspetti più spaventosi e repulsivi dell’esistenza umana può risolversi in un’apertura spirituale e in un modo di esistere nel mondo qualitativamente diverso.
Il duplice orientamento dell’Ars Moriendi, verso la morte e verso la vita, sembra essere tipico di tutti i “Libri dei Morti”.
Il messaggio che essi comunicano ci erudisce non soltanto sulla morte, ma anche su un approccio alternativo alla vita, mediato dall’esperienza della morte. Questo argomento riveste un’importanza assolutamente fondamentale, e quindi ne discuteremo più dettagliatamente.

“Il viaggio postumo dell’anima” di Stanislav e Christina Grof
tratto dal Volume 2 – Febbraio 2011 – di “Rebis” (La Vita e la Morte) TecnaEditrice


per una Biblioteca del Sapere:
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