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566. Atma-Gita di René Guénon

Giovedì 05 Febbraio 2015 00:00 Rosario Castello
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In un nostro precedente lavoro, abbiamo fatto allusione ad un senso interiore della Bhagavad-Gita, che, quando sia esaminata da questo punto di vista, prende il nome di Atma-Gita; e siccome ci è stata chiesta qualche spiegazione su questo argomento, pensiamo che non sarà senza interesse offrirla in questa sede.
La Bhagavad-Gita, che è, come si sa, un episodio a del Mahabharata (Ricordiamo che i due Itihasa, cioè il Ramayana e il Mahabharata, facenti parte della Smrti, e dunque aventi carattere di scritti tradizionali, sono tutt’altro che semplici “poemi epici”, nel senso profano e “letterario” che ordinariamente afferrano gli Occidentali), è stata tradotta tante di quelle volte in lingue occidentali che dovrebbe essere ben conosciuta da tutti; ma non è così, poiché, a dire il vero, alcune di queste traduzioni non testimoniano di una vera comprensione. Il titolo stesso è generalmente reso in modo piuttosto inesatto, con “Canto del Beato”, laddove, in realtà, il senso principale di Bhagavad è quello di “glorioso” e di “venerabile”; quello di “beato” esiste pure, ma è del tutto secondario, e d’altra parte mal si adatta al caso in questione. In effetti, Bhagavad è un epiteto che si applica a tutti gli aspetti divini ed anche agli esseri che sono considerati come particolarmente degni di venerazione (I Buddhisti, naturalmente, danno questo titolo a Buddha; e i Giainisti lo attribuiscono ai loro Tirthankaras); l’idea di felicità, che del resto è, in fondo, d’ordine squisitamente individuale ed umano, non vi si trova necessariamente contenuta. E non vi è nulla di strano che questo epiteto sia attribuito soprattutto a Krsna, che non solo è un personaggio venerabile, ma che, in quanto ottavo avatara di Visnu, corrisponde realmente ad un aspetto della divinità; ma vi è ancora qualcosa da aggiungere.
Per comprendere quanto diremo, bisogna ricordare che i due punti di vista visnuita e sivaita, che corrispondono a due grandi vie convenienti ad esseri di natura differente, prendono ciascuno, come supporto per elevarsi verso il Principio supremo, uno dei due aspetti divini, in qualche modo complementari, ai quali essi debbono le loro denominazioni rispettive, e traspongono questo aspetto in modo tale che lo identificano al Principio stesso, considerato senza alcuna restrizione e al di là di qualsiasi determinazione o specificazione. È per questo che gli Saiva designano il Principio supremo come Mahadeva o Mahesvara, che è propriamente un equivalente di Siva, mentre i Vaisnava con qualcuno dei nomi di Visnu, come Narayana o Bhagavat; e quest’ultimo è soprattutto impiegato da alcuni che, proprio per questo motivo, portano il nome di Bhagavata. Non vi è del resto in tutto ciò alcun elemento di contraddizione: i nomi sono tanti quante le vie alle quali essi si riferiscono, ma queste vie conducono tutte, più o meno direttamente, al medesimo scopo; la dottrina indù non conosce nulla di simile all’esclusivismo occidentale, per il quale una sola ed unica via dovrebbe convenire egualmente a tutti gli esseri, senza tenere alcun conto delle differenze di natura che esistono tra gli stessi.
Ora, sarà facile comprendere che Bhagavad, essendo identificato con il Principio supremo, non è altro, per ciò stesso, che l’Atma incondizionato; e ciò è vero in ogni caso, sia che Atma venga riferito all’ordine “macrocosmico”, sia che venga riferito all’ordine “microcosmico”, a seconda dei punti di vista. Non possiamo, evidentemente, ripetere quanto già detto a questo proposito in altre sedi (Rinviamo soprattutto, per questo argomento e per quel che segue, alle considerazioni che abbiamo esposto in L’uomo e il suo divenire secondo il Vedanta, Torino 1965).
Ciò che qui maggiormente interessa è l’applicazione che possiamo definire “microcosmica”, cioè quella fatta con riferimento ad ogni essere considerato particolarmente; a questo riguardo, Krsna e Arjuna rappresentano rispettivamente il “Sé” e “l’”io”, la personalità e l’individualità, che sono Atma incondizionato e jivatma.
L’insegnamento dato da Krsna e Arjuna è, da questo punto di vista interiore, l’intuizione intellettuale, sovrarazionale attraverso la quale il “Sé” comunica con l’”io”, quando quest’ultimo sia “qualificato” e preparato in modo tale che questa comunicazione possa effettivamente stabilirsi.
Si deve notare, cosa importantissima ai fini del nostro discorso, che Krsna e Arjuna sono rappresentati sopra lo stesso carro; questo carro è il “veicolo” dell’essere inteso nel suo stato di manifestazione; e, mentre Arjuna combatte, Krsna conduce il carro senza combattere, cioè senza essere lui stesso impegnato nell’azione. In effetti, la battaglia di cui si parla nell’opera simboleggia l’azione, in senso generale, sotto una forma consona alla natura e alla funzione degli Ksatriya, ai quali il libro è particolarmente destinato (È da notare che questo senso è anche, esattamente, quello della concezione islamica della “guerra santa” – jihad –; il riferimento sociale ed esteriore è del tutto secondario, e ben lo mostra il fatto che esso si applica solo alla “piccola guerra santa” – jihad seghir – , mentre la “grande guerra santa” – jihad kebir – è d’ordine puramente interiore e spirituale.); il campo di battaglia (Kuruksetra) è il campo dell’azione, nel quale l’individuo sviluppa le sue possibilità; e questa azione non tocca minimamente l’essere principale, permanente ed immutabile, ma concerne soltanto l’”anima” vivente individuale (jivatma). I due che montano sullo stesso carro sono dunque la stessa cosa che i due uccelli di cui si parla nelle Upanisad: “Due uccelli, compagni inseparabili, risiedono uniti su uno stesso albero; l’uno mangia il frutto dell’albero, l’altro osserva senza mangiare”. Anche qui, con un simbolismo differente per rappresentare l’azione, il primo dei due uccelli è il jivatma, e il secondo è l’Atma incondizionato; e lo stesso è da dire per i “due che sono entrati nella caverna”, di cui si parla in un altro testo (Katha Upanisad); e se questi due sono sempre strettamente uniti, verosimilmente ciò è perché non sono che uno dal punto di vista della realtà assoluta, poiché jivatma non si distingue da Atma se non illusoriamente.
Per esprimere questa unione, in diretto rapporto con l’Atma-Gita, vi è anche un termine particolarmente significativo: è quello di Naranarayana, “Colui che cammina (o che è portato) sulle acque”, è un nome di Visnu, applicato per trasposizione a Paramatma o al Principio supremo, come s’è detto in precedenza; le acque rappresentano qui le possibilità formali o individuali (Nella tradizione cristiana, il camminare sulle acque del Cristo sulle acque ha un significato esattamente riferibile al medesimo simbolismo). D’altra parte, nara o nri è l’uomo, l’essere individuale in quanto appartenente alla specie umana; ed è da sottolineare la stretta relazione che esiste tra questa parola e quella di nara, che indica le acque (Forse, il nome di Nereo e delle Nereidi, ninfe delle acque presso i Greci, non è senza rapporto con il sanscrito Nara); ciò ci porterebbe, peraltro, troppo lontano dal nostro tema. Così, Nara e Narayana sono rispettivamente l’individuale e lo Universale, l’”io” e il “Sé”, lo stato manifestato di un essere e il suo principio non manifesto; ed essi sono riuniti indissolubilmente nell’insieme Naranarayana, di cui a volte si parla come di due asceti che risiedono sull’Himalaya, il che richiama specialmente l’ultimo dei testi delle Upanisad che abbiamo menzionato, testo nel quale i “due che sono entrati nella caverna” sono chiamati allo stesso tempo “dimoranti sulla più alta vetta” (Vi è qui una indicazione dei rapporti simbolici della caverna e della montagna, ai quali abbiamo avuto occasione di fare allusione ne Il Re del Mondo). Si dice anche che, nello stesso insieme, Nara è Arjuna, e Narayana è Krsna; questo sono i due che montano sullo stesso carro, e si tratta sempre, sotto un nome od un altro, qualunque sia la forma simbolica impiegata, di jivatma e Paramatma.
Queste indicazioni permetteranno di comprendere quello che è il senso interiore della Bhagavad-Gita, senso in rapporto al quale tutti gli altri non sono, tutto sommato, che applicazioni più o meno contingenti. Ciò è vero soprattutto per il senso sociale, nel quale le funzioni della contemplazione e dell’azione, che si riferiscono rispettivamente al sovra-individuale e all’individuale sono considerate come quelle del Brahmano e dello Ksatriya (Questo punto di vista è quello che abbiamo sviluppato soprattutto in Autorità spirituale e potere temporale). È detto che il Brahmano è il tipo degli esseri fissi o immutabili (sthavara), e che lo Ksatriya è il tipo degli esseri mobili o mutevoli (jangama); si può vedere senza difficoltà l’analogia che esiste tra queste due classi di esseri da una parte e, dall’altro lato, la personalità immutabile e l’individualità sottomessa al mutamento; è ciò stabilisce immediatamente il legame tra questo senso e il precedente. Vediamo inoltre, che là dove si tratta specialmente dello Ksatriya, questi, dato che l’azione è la sua funzione propria, può essere preso per simboleggiare l’individualità, quale che essa sia, che è forzatamente impegnata nell’azione dalle condizioni stesse della sua esistenza, mentre il Brahmano, in ragione della sua funzione di contemplazione o di conoscenza pura, rappresenta gli stati superiori dell’essere (Poiché il Brahmano è designato come un Deva sulla terra, i Devas corrispondono agli stati sovra-individuali o informali – sebbene ancora non manifesti – ; questa designazione, che è rigorosamente giusta, sembra non essere mai stata compresa dagli Occidentali); e così si potrebbe dire che ciascun essere ha in se stesso il Brahmano e lo Ksatriya, ma con la prevalenza dell’una o dell’altra delle due nature, a seconda che le sue tendenze lo portino principalmente verso la contemplazione o verso l’azione. Si vede quindi che la portata dell’insegnamento della Bhagavad-Gita è lungi dal limitarsi agli Ksatriya, benché la forma attraverso la quale questo insegnamento è esposto convenga loro particolarmente; e se gli Occidentali, presso i quali la natura dello Ksatriya si incontra più frequentemente di quella del Brahmano, ritornassero alla comprensione delle idee tradizionali, una tal forma è senza dubbio quella che sarebbe loro più immediatamente accessibile.

René Guénon
tratto da Studi sull’induismo
Basaia Editore 1983
Traduzione di Antonino Anzaldi

Dello stesso autore:
Autorità Spirituale e Potere Temporale – Adelphi 2014
Considerazioni sull’Iniziazione - Luni
La Crisi del Mondo Moderno - Mediterranee
L’esoterismo di Dante - Adelphi
Forme Tradizionali e Cicli Cosmici - Mediterranee
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