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469. Un minuto dopo la morte di Pietro Cimatti

Mercoledì 19 Marzo 2014 00:00 Rosario Castello
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Dalle più astratte alle più concrete, le religioni e le filosofie che hanno avuto fino ad ora corso ufficiale hanno tutte posto l’uomo  al centro del mondo: egli è il soggetto  dominante e il mondo è l’oggetto della sua conoscenza, della sua indagine. La sapienza esoterica – che chiameremo semplicemente “scienza” – non riconosce all’uomo questo solitario primato e ne fa l’oggetto di uno studio né passionale (cioè religioso) né astratto-concettuale (cioè aridamente filosofico), né tanto meno quantitativo-statistico.
Si può dire, in prima approssimazione, che la “scienza” ha semmai l’esattezza e il distacco della vera Scienza, da un lato, e il pathos e la profondità della vera Arte  dall’altro. Ciò le consente di rispondere ai “perché”? e ai “come”? cui né le religioni né le filosofie hanno mai risposto, almeno in forma leggibile a tutti, per quanto riguarda ciò che è di qua e di là, prima e dopo lo spettacolo, grandioso ed effimero, del mondo. Perché si nasce e perché si muore, ad esempio, e come questi eventi accadono, e che cosa comportano di esperienza a chiunque li vive, non solo l’uomo: ecco alcune delle conoscenze, (delle quali l’uomo è oggetto oltre che soggetto), che la “scienza” può darci. Esse sono, anzi, le conoscenze iniziali per chi si avvia sul sentiero.
L’uomo muore, a qualunque età ciò accada, perché non ha altre esperienze da compiere sulla Terra. A quel punto si arresta, momentaneamente, la sua evoluzione. Perché l’evoluzione spirituale dell’uomo (adesso parliamo solo di lui) avviene solo sulla Terra, da incarnato come si usa dire. Egli esce di scena esattamente quando i conti tornano, cioè ha pagato il suo debito precedente ed è sperabile che abbia accumulato un credito che successivamente riscuoterà. Abbiamo così accennato, molto sinteticamente, sia al karma che alla reincarnazione: ma a queste più complesse conoscenze della “scienza” torneremo in altre circostanze, sempre in questa sede.
Diciamo solo, ancora, che nessuno muore né un attimo prima né un attimo dopo di quando gli è necessario (anche se il suo “io” può non essere d’accordo): e ciò spiega sia le lunghissime malattie che le scomparse repentine e apparentemente immotivate (almeno sotto il profilo clinico) di chi era in piena salute. Non si può mancare a questo  appuntamento, che è il morire, e che significa passare dal visibile all’invisibile; ciò rappresenta un cambio di dimensione e soprattutto la perdita istantanea dei sensi fisici e l’entrata in funzione di un’altra categoria di sensi, quelli astrali (dagli orientali chiamati cakra). Perché la vita continua, non ha mai fine …
La prima consapevolezza, che segue la morte del corpo fisico ed il suo abbandono, è appunto che la morte non esiste. L’individuo, infatti, continua a sentire di esistere, e sentire di esistere è l’equivalente di vivere. Perciò il morire guarisce, istantaneamente, quella che è la paura della morte, un’angoscia purtroppo consueta tra i civilizzati.
Tutti quelli che hanno identificato se stessi col proprio corpo ritengono, a conclusione di questo falso concetto, che la morte del proprio corpo fisico significhi l’annullamento automatico, l’annichilimento definitivo di se stessi. Sentendosi ancora vivi, dopo il trapasso, anzi improvvisamente liberi e leggeri in una atmosfera luminosa e senza ostacoli materiali, concludono spontaneamente che vivere non ha interruzioni e che hanno inutilmente sofferto la paura del trapasso. E tuttavia la paura di morire può essere tale e tanta, in alcuni, che si sentono ben vivi, dopo il trapasso, ma l’incubo non ancora superato impedisce loro di ammetterlo. Se potessimo ascoltarli li udremo dire, ignari di comunicare una illogicità: “io sono nel nulla”.
Eppure questo ipotetico nichilista ha appena compiuto, come accade a tutti gli uomini indistintamente, una grandiosa esperienza che nega alla radice il suo pessimismo. Per tutti, una legge inderogabile, accade infatti che, nel momento che precede e accompagna il trapasso, si riveda tutto il film dell’incarnazione appena vissuta: ognuno rivive la sua vita nei minimi particolari, addirittura risente gli odori, riprova i sapori, riascolta il suono di tutte le voci, ripercorre i luoghi, si riaccompagna a tutti i compagni del suo viaggio terreno. Questo “rivivere” avviene in maniera estremamente accelerata, secondo una modalità temporale già non più umana (ma “astrale”), però senza che un solo particolare manchi o sia sottratto. E questo accade perché, in realtà, niente va perduto.
Tutto ciò che un essere sperimenta, vivendo; anche la cronaca minima e il dettaglio che gli era sfuggito, è conservato nella memoria superiore dell’essere. Questo spiega il fenomeno detto della reminiscenza – non poi così raro – che consiste nel rivivere un vissuto antecedente, anche di altre esistenze, con straordinaria nitidezza; è come, cioè, visionare uno spezzone di film, più o meno lungo, di una propria vita chissà quando vissuta, comunque oltre la memoria consapevole. Dunque, non soltanto non esiste la morte, e la vita non ha mai fine, ma niente di tutto quello che tutti i viventi hanno vissuto va perduto e dissolto.
L’attimo della morte, quindi, è l’attimo stesso in cui l’individuo, rivedendosi integralmente in uno specchio vertiginoso ma esattissimo, sa chi è. poi entra nel tunnel interdimensionale, che corrisponde all’utero materno attraverso il quale passò per nascere, abbandona alla Terra ciò che è della Terra, il suo corpo, e parte verso una grande avventura.
Ciascuno in modo diverso, quanto a tempi e modalità, viene accolto tra gli ex terrestri dalle persone che ebbe più care: esse lo chiamano, gli sorridono, lo invitano, gli dimostrano come meglio possono, la loro condizione felice e tutt’altro che mortuaria. Ecco perché, durante le cosiddette agonie, molti che hanno già perduto lo sguardo sorridono verso un punto alto della stanza dove giacciono, e talora pronunciano i nomi più cari. Tra questi “mamma” è il più frequente, naturalmente.
Ma a questo punto entra in azione un meccanismo tipico del piano astrale, che è anche detto dagli occultisti “mondo del desiderio”. Ognuno vede e sperimenta ciò che desidera e che gli occorre a quel punto della sua evoluzione. Non è detto, in altri termini, che siano oggettivamente la madre, il padre, un amato della vita appena trascorsa che si presentino sulla soglia del nuovo piano di esistenza ad accogliere il nuovo arrivato. Il potere plastico del desiderio è tale che ognuno vive ciò che desidera, ciò che si aspetta, ciò che sogna. Ed ecco che la madre, l’amato appaiono e danno il benvenuto. Accade insomma qualcosa per cui il “partente”, dopo aver sperimentato che niente della vita va perduto, e che la morte non esiste, non ha più nessuna paura, se mai ne ebbe, ed anzi si avvia sereno e ben accompagnato nel nuovo mondo che lo attende.
Intanto gli si accostano, inizialmente non osservati, i cosiddetti “aiutatori astrali”, cioè individui evoluti che spontaneamente si dedicano al compito di agevolare il primo assestamento dei nuovi venuti e di vegliare sul loro “sonno”.
Ognuno, infatti, entra dopo il trapasso in uno stato di “riposo”, più o meno lungo e ripagante. Poi passerà a quello stato detto di “purificazione” che consiste nell’abbandonare il proprio corpo astrale – questa volta senza “morte” – e con esso tutti i desideri, le passioni, gli egoismi, i difetti di personalità che hanno caratterizzato, appesantito la sua precedente esperienza terrena.
Può darsi il caso che qualcuno, non accorgendosi di essere morto, continui a vivere secondo modi terrestri: si alza, si veste, va in ufficio, tiene conferenze, va al cinema, eccetera. Come può accadere questo? È facile rispondere: con la materia del piano astrale, estremamente malleabile, quell’individuo plasma inconsapevolmente il mondo che desidera, gli oggetti e le azioni abituali dalle quali non sa ancora distaccarsi … e così continua fino a che, stanco di “sognare”, ed accorgendosi finalmente dell’abbaglio, si sveglia nella nuova realtà, si accorge dei colori, degli abitanti e dei paesaggi nuovi che ha intorno, e li vede. A quel punto, tranne che sia stato un essere crudele e malvagio nel senso più ampio del termine, prova una immensa sensazione di benessere, di distensione, di serenità. Cerca chi gli fu caro, e lo trova immediatamente. Cerca più luce, se è pronto, e vi si dirige.
Chi ha creduto nell’inferno, e in qualche modo si sente colpevole, in questa fase può costruirsi un inferno secondo le descrizioni apprese durante la vita. chi invece ha commesso malvagità, e già si accorge – nel clima d’amore che lo accoglie – quanto l’agire crudele verso il prossimo sia contrario alla grande, unica legge della Vita, si ripiega in un suo “inferno” personale, purificante, macerante, necessario per prepararlo consapevolmente alla nuova esistenza di sofferenza che, per karma, lo attende.
Si può dire che per ognuno che parte c’è una via, un carico, una somma di esperienze diverse. Nessun uomo è simile ad un altro: e questo , che a taluno sulla Terra può non apparire evidente, è invece lampante dopo la vita terrestre, là dove l’individuo va veramente incontro a se stesso, ed è visibile a tutti per quello che veramente è.
Il viaggio ultraterreno è, come quello dantesco, un itinerario tutto interiore attraverso le ombre dell’autopunizione, della purificazione, incontro alla luce della beatitudine. Inutile qui aggiungere che i concetti religiosi di “paradiso” ed “inferno” come condizioni permanenti, oggettive e perfino localizzate, qui tra le fiamme e là tra le rose, sono concetti infantili senza nessun riscontro tranne quello, del tutto soggettivo e illusorio, di chi dopo il trapasso li vive perché se li aspettava non avendo, del dopo morte, notizie meno fiabesche. Poi il “sogno” finisce …
Dopo il trapasso e prima del “sonno”, o durante quella che i clinici chiamano “morte apparente” – mentre si tratta di una morte reale, seppure temporanea – l’individuo si stacca dal suo corpo fisico e può volteggiare nella stanza, vedere i parenti in lacrime, i medici e gli infermieri che tentano, spesso maldestramente, le ultime cure. Li ode, non udito, e li vede, non visto.
Nel contempo può vedere, con gli occhi astrali, la nuova dimensione d’esistenza che lo attende e lo chiama: luci, giardini, serenità, figure d’amore.
Tornare, per chi deve tornare a vivere, è sempre doloroso. Perché ha compreso che non solo la vita continua, ma “aumenta”.

“Un minuto dopo la morte” di Pietro Cimatti
tratto dal Volume 2 – Febbraio 2011 – di “Rebis” (La Vita e la Morte) TecnaEditrice

 

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