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489. I Sentieri che conducono al Divino a cura di Raphael

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CAPITOLO DODICESIMO
della Bhagavad-Gita

Presentiamo, di seguito, il 12° Capitolo della Bhagavad-Gita tradotto e commentato da Raphael.

*****

Arjuna disse:

     1. Tra coloro che costantemente ti onorano in tal modo e quelli che onorano l’Imperituro immanifesto, chi [di questi due tipi] ha la più grande conoscenza dello yoga?

Arjuna ha intuito l’Immutabile e sperimento il mutevole, così, ora vuole sapere chi tra gli adoratori dell’uno o dell’altro aspetto è più versato nello yoga.

Śrī Bhagavān rispose:

     2. Coloro che, con la mente fissa in Me, sempre devoti e con fede suprema mi onorano, sono a Me uniti in modo perfetto.

Per l’Istruttore, che parla al discepolo ksatriya, la risposta non può essere che quella di onorare l’Uno-Isvara, il Dio_Persona, il Brahman Saguna con attributi. Anzi, metà dello ksatriya è il sottoporre la propria volontà a quella del Padre-Isvara. Non v’è più alta dignità, per lui che si muove sul piano dell’azione, se non quella di combattere per il Divino, per il dharma universale.

     3. Ma quelli che onorano l’Indistruttibile, l’Indescrivibile, l’Immanifesto, l’Onnipresente, l’Impensabile, l’Immutabile, l’Immobile, il Permanente,

     4. che controllano tutti i sensi (indriya), equanimi in ogni condizione, che sono contenti della felicità di tutti gli esseri: [anch’essi] Mi realizzano.

     5. Il sentiero di coloro la cui mente è protesa verso il Non-manifesto è più difficile [da seguire], perché il Non-manifesto è arduo da realizzare fino a quando la coscienza è legata alla forma.

L’Istruttore, dopo aver consigliato di meditare sull’Uno-Isvara, spiega il motivo del suo consiglio.
L’Immanifesto (aksara) è difficile da conseguire e non è per tutti, perché il jiva individuato è identificato con le sue modificazioni. Egli è trascinato dal suo stesso movimento, e quando si pone il problema della trascendenza non si accorge che, con le sue azioni, produce altro moto. D’altra parte, il movimento non può che produrre altro movimento, e se si vuole risolvere quest’ultimo occorre fare una sola cosa: fermarsi, arrestarsi e costituirsi come non-moto. Ma rallentare il movimento è cosa ardua per il jiva; esso che è divenire non può concepire il non-divenire; esso che è azione non può concepire la non-azione. La sua salvezza, però, viene dall’illuminazione della buddhi purificata e tocca a questa determinare lo spostamento coscienziale o il salto dal discontinuo al continuo, dal divenire all’Essere.
La condizione del jiva, sul piano del manifesto, è simile a quella dell’uomo che, coinvolto dai flutti del mare, vuole salvarsi. Più provoca movimento e più si trascina sott’acqua, inabissandosi; più produce azione più la sua condizione diviene disperata. Se realmente vuole sottrarsi al pericolo deve compiere un atto che apparentemente è contro la stessa logica e contro il suo normale modo di determinarsi; deve, in altri termini, avere l’abilità, la fermezza e l’autopadronanza di rimanere fermo, abbandonando ogni presa e acquietando il suo vortice energetico esteriorizzante; deve, quindi, assentarsi, “fare il morto” senza alcuna modificazione. In questa condizione non-condizione si salva, in questa morte apparente trova la vita.
Il jiva, dunque, deve morire e risolversi nella coscienza brahmanica, ma, per i più, morire da vivi è difficile. A questi – fino a quando non si è trovato il coraggio adeguato – la via del Brahman Saguna è più congeniale, proprio perché in essa c’è ancora azione-agire-processo.
La Gita è, naturalmente, un libro scritto per i molti, ed è estremamente utile per comprendere il giusto agire, il giusto muoversi in un mondo in continua trasformazione.

     6. Ma quelli che a Me sono devoti, che incessantemente con fede meditano su di Me, che abbandonano a Me tutte le azioni,

     7. quelli, la cui mente è concentrata in Me, Io, senza indugio, li libero dall’oceano delle nascite e delle morti, o Pārtha.

     8. Solo in Me fissa la tua mente, a Me solo rivolgi il tuo intelletto e non dubitare: a Me tu verrai.

     9. Ma se la tua mente non è capace di fissarsi stabilmente su di Me, cerca allora, o Dhanamjaya, di raggiungermi con la pratica assidua dello yoga (abhyāsayoga).

L’abhyasa-yoga consiste nella pratica di un metodo, nel seguire certe regole o una particolare disciplina, nella ripetizione costante di uno sforzo, nell’obbedire a certe restrizioni, ecc.

    10.Se anche di ciò sei incapace, volgi a Me ogni tua azione; avendo Me come fine potrai ottenere la perfezione.

    11.E se non sei capace di fare neanche questo, allora, rifugiandoti nel mio potere e controllando il tuo , riponi ai miei piedi il frutto delle tue azioni.

L’Istruttore, comprendendo le difficoltà dei jiva implicati nella Realizzazione, menziona parecchi sentieri e metodi di approccio al Divino. Abbiamo, così, il metodo:

-   Della fede e devozione. La fede che non conosce dubbio o reticenza.
-   Della perseverante concentrazione mentale su Divino, il che implica il dominio della mente sì da direzionarla coscientemente.
-   Dell’amore totale per l’Amato. Il che implica la direzione di tutti i desideri-sentimenti e delle azioni verso l’oggetto dell’amore.
-   Dell’agire per il Demiurgo, senza desiderare i frutti dell’azione. Cosa piuttosto difficile perché il jiva produce azione solo se interessato a qualcosa. Questa è la via che sta sperimentando Arjuna.

    12.L’aspirazione conoscitiva è migliore della pratica costante (abhyāsāt), migliore dell’aspirazione conoscitiva è la meditazione (dhyāna), la rinuncia al frutto dell’azione è superiore alla meditazione. Alla rinuncia consegue la pace (śānti).

L’aspirazione conoscitiva o il volgere l’animo al Dio-persona è migliore della pratica della semplice concentrazione, migliore dell’aspirazione conoscitiva è la meditazione con seme, ma la rinuncia ad ogni frutto dell’azione è superiore alla meditazione perché implica il trascendere l’io empirico, causa di trasmigrazione e di conflitto. Il più alto sacrificio, come si è visto in precedenza, è proprio quello di abbandonare le determinazioni dell’io individuato.

    13.Colui che non è ostile ad alcuna creatura vivente, che nutre amorevolezza e compassione, che è libero dall’egotismo, equanime nel dolore e nella gioia, tollerante,

    14.soddisfatto, risoluto, equilibrato, con il manas e la buddhi rivolti a Me, che mi è devoto, quello yogi mi è caro.

    15.Colui che non paventa il mondo e che dal mondo non è paventato, che è affrancato dalla felicità [sensoriale] e dall’angoscia, dalla collera e dalla paura, quegli mi è caro.

    16.Colui che non attende niente per sé, puro, pronto, calmo, indifferente, che ha rinunciato a ogni iniziativa, che mi è devoto, quegli è a Me caro.

    17.Colui che non esulta e non odia, non s’addolora, non ha aspettative, che ha rinunziato al frutto del piacere e del non-piacevole, pieno di devozione, quegli, appunto, è a Me caro.

    18.Colui che è equanime di fronte al nemico e all’amico, all’onore e all’infamia, al freddo e al caldo, al piacere e al dolore, affrancato da ogni attaccamento;

    19.che è imparziale di fronte al biasimo e alla lode, che vive nel silenzio (mauni), soddisfatto di ogni cosa, che non è vincolato [attaccato] a una dimora, stabile con la mente, che mi è devoto, quegli mi è caro.

    20.Ma coloro che seguono questo dharma imperituro, così come è stato esposto, che a Me sono devoti, pieni di fede, avendo Me quale scopo supremo, quelli soprattutto mi sono cari.

Questo è il dodicesimo capitolo dell’Upanisad della Bhagavadgītā intitolato:
“I sentieri che conducono al Divino”.

 

CONSIDERAZIONI SUL DODICESIMO CAPITOLO

Vi sono diversi sentieri che conducono al Divino e ognuno di noi, secondo le attitudini e le predisposizioni innate, può accostarsi all’uno o all’altro. La Gita non è assolutistica nelle sue affermazioni, non ammette che possa esservi un’unica strada, un unico credo, un’unica setta religiosa; se la mèta è unica, le strade per pervenirvi sono tante. Questo spirito di tolleranza, di perspicacia psicologica, di sintesi spirituale ha fatto sì che in India, in fondo, non ci siano religioni organizzate. Vi è invece un’”attitudine coscienziale” verso la trascendenza, verso il Divino, che trova la sua consumazione in differenti sadhana.
Ogni individuo vive un particolare stato coscienziale che non è identico a quello di altri individui; non è possibile, quindi, imporre a uno quello che, invece, è pertinente a un altro.
La ricerca di Dio immanente o trascendente è un fatto esclusivamente individuale, come individuale è la ricerca della verità empirica. Ogni scienziato, ad esempio, può accostarsi alla ricerca con una metodologia, un’attitudine psicologica e un intendimento diversi da quelli di un altro scienziato.
Ogni autentica ricerca è un fatto di libertà e l’Istruttore deve saper stimolare la ricerca, non l’asservimento a certi presupposti dogmatici o a sentieri unilaterali e univoci.
L’amore è tale solo se esprime tolleranza, umiltà, comprensione e rispetto per la ricerca – spirituale, filosofica e scientifica – degli altri; è tale se estrinseca saggezza iniziatica e silenzio espressivo.
Krsna, lo yogi perfetto, fa, dunque, comprendere ad Arjuna che ci sono diverse strade e meditazioni che conducono il figlio prodigo al Padre. Occorre saper cercare la propria attitudine, conoscere le varie modalità d’approccio, penetrare la natura della propria istanza, trovare il veicolo-corpo più responsivo alla ricerca (volontà, sentimento, conoscenza, azione, ecc.) e, soprattutto, capire che il sentiero: yoga, rituale, mistico, filosofico, ecc. è solo un mezzo mediante cui pervenire alla mèta suprema e unica per tutti, e non il fine. Diciamo questo perché l’uomo capovolge spesso la sequenza, considerando il mezzo come fine e viceversa. Dire che una strada è migliore di un’altra è peccare di superficialità e cecità; ogni sadhana è valida, nel tempo e nello spazio, per quella data coscienza-mente-cuore interessata alla trascendenza. Niente di più facile che un individuo, percorso un sentiero non è più rispondente a lui.
Vi sono anime che scendono, ristagnano o risalgono; vi sono jiva sulla via dell’espirazione e altri, invece, su quella dell’inspirazione; v’è chi ricerca l’Uno principiale, il Padre cosmico che tutto sostiene, chi l’Immanifesto e Inqualificato assoluto senza nome e forma; chi cerca l’Avatar e chi onora gli Dei costruttori o gli Angeli, Arcangeli, ecc. quando la ricerca è fatta con spirito di vera dedizione e tolleranza, quando il cuore si apre al superiore e l’emozione aspira al trascendente, al sovra individuale non ha importanza quale sia l’oggetto divino.
È con questa profonda comprensione del moto spirituale del fratello, è con questa intelligente visione psicologica che l’amore-saggezza si matura e si svela; è, ancora, con questo amore che possiamo benedire, stimolare e far crescere.

tratto da Bhagavad-Gita (il Canto del Beato)
Prefazione, traduzione e commento di Raphael
Edizioni Asram Vidya

 

*****

Raphael, avendo carpito lo spirito profondo che permea l’intera opera, è riuscito a trasferirlo nella lingua italiana in una forma poetica e incisiva. Inoltre Raphael accompagna il testo con un prezioso commento e propone, per ogni capitolo, una sintesi che ne evidenzia i punti essenziali sotto l’aspetto psicologico, filosofico, iniziatico e metafisico.

 

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