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556. Il Buddhismo a cura di Redazione “Domani”

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Il contesto storico

Ci sono periodi nella storia particolarmente fecondi per l’evoluzione dell’uomo. Uno di questi fu il periodo tra il VI e il V secolo a.c., quando emersero figure che avrebbero dato un’impronta al carattere culturale e spirituale di interi popoli per i secoli a venire. Tra le figure di allora, Socrate in Grecia, Zarathustra in Persia, Confucio e Lao Tse in Cina.

La leggenda

In quel grande periodo di risveglio, presumibilmente intorno all’anno 560 a.c., nasceva in India, in un villaggio vicino al confine con il Nepal, il principe Siddharta Gautama del clan dei Sankya.
Suo padre, il re Sudhodana, governava un piccolo regno locale. La leggenda racconta che, poco dopo la nascita del figlio, re Sudhodana consultò gli indovini chiedendo quale fosse il destino del suo erede. “Maestà” risposero “se Siddharta Gautama vivrà la vita di questo mondo, diventerà il più grande statista che sia mai esistito, imperatore di tutta l’India. Ma …” continuarono “se sceglie di lasciare il mondo per una vita santa, diventerà un predicatore senza eguali.”
Il re non voleva che il figlio diventasse un monaco e fece del suo meglio per assicurarsi che ciò non accadesse. Il giovane Siddharta condusse una vita di lusso circoscritta nel palazzo e nei giardini reali, senza contatti con il mondo esterno. A tempo debito sposò la bella principessa Yashodara, ebbero un figlio, Rahula, e la loro vita era colma di gioia.
Ma Siddharta era inquieto e volle infine vedere con i propri occhi quel che avveniva oltre le mura del palazzo. Incontrò così vecchi, malati, vide persone decedute e per la prima volta scoprì la sofferenza e l’infelicità.
Decise allora di dedicarsi alla ricerca della verità per aiutare l’umanità a uscire dalla sofferenza. Rinunciò a ogni bene e conforto, lasciando di nascosto il palazzo, e per sette anni vagò alla ricerca della conoscenza.
In India le antiche scritture vediche dei Rsi, pur riscoperte pochi secoli prima nel loro senso profondo e reinterpretate dai saggi che compilarono le Upanisad, erano di nuovo cadute in un’interpretazione esteriore. Siddharta stesso aveva imparato lo yoga e parlato con santoni che gli avevano consigliato una vita di preghiera e digiuno, ma ciò lo aveva solo fatto ammalare. Decise infine di volgersi su se stesso. Raggiunto un luogo chiamato Bodh Gaya, si sedette a meditare per quarantanove giorni e quarantanove notti, trovando infine in la verità che andava cercando. Era diventato il Buddha, l’Illuminato. Nei 45 anni successivi all’illuminazione, fino alla morte, divulgò agli uomini il suo messaggio.

La diffusione del Buddhismo

Da allora il Buddhismo ebbe un’espansione irresistibile, conquistando infine tutto l’Estremo Oriente, dove tutt’ora è la religione dominante, tranne, curiosamente, in India, dove è quasi completamente scomparso.
Il periodo di maggior diffusione del Buddhismo in India si ebbe nel III secolo a.c., sotto l’imperatore Asoka, che regnava allora incontrastato sull’intero sub continente. Asoka fece del Buddhismo la religione del proprio impero. Grande condottiero ma anche grande uomo del suo tempo, egli si preoccupò di far conoscere il Buddhismo anche al di fuori dell’India, e inviò in Occidente ambasciate per aprire un dialogo che continuò negli immediati secoli successivi. Ancora due secoli dopo, si hanno testimonianze di uno scambio tra il re indo-graco Menando e il grande monaco buddhista Nagasena.

Il Buddhismo e l’Occidente

Questi scambi di alto livello ebbero fine nel IV secolo della nostra era, quando l’editto dell’imperatore romano Costantino, che faceva del Cristianesimo la religione dell’impero, creò una barriera storica chiudendo le porte d’Occidente all’influenza religiosa orientale. Il Medioevo compì il resto dell’opera d’isolamento.
Tuttavia, in tempi recenti, il Buddhismo ha cominciato a registrare un seguito crescente anche in Occidente. La cosa non deve sorprendere. Le radici della cultura occidentale risalgono ai Greci antichi, la cui fede non era riposta in divinità (che altro non erano per loro che esseri umani ingigantiti), ma nella Mente, e nell’ideale di perfezione etica ed estetica da essa perseguita; parimenti, il Buddhismo non riconosce entità a noi esterne alle quali rivolgere pene e aspirazioni, perché la ricerca deve avvenire in noi stessi.
Non è un caso che lo scienziato simbolo dei nostri tempi, Albert Einstein, riconosca nel suo libro “Come io vedo il mondo” che se mai egli dovesse abbracciare una religione, quella sarebbe il Buddhismo. Einstein aborrisce ogni religione improntata su un dio personale, di solito assiso su un trono e prono a condannare o premiare un’umanità succube. Ancor peggio quando questo dio si fa difensore di un gruppo o un popolo particolari in competizione e contrasto con tutti gli altri. Si può immaginare che l’idea di Dio di uno scienziato si formi attraverso la visione dei grandi fenomeni della Natura, uguali per tutti, come il sole che riscalda e il vento che soffia, l’aria che ci fa respirare o l’atomo che tale è qualunque forma materiale assuma. È un’attitudine dettata dalla logica, come profondamente logico certamente è il Buddhismo. Buddha esamina con distaccata lucidità l’uomo e i suoi problemi e attraverso una ricerca che esplora le forze psicologiche interiori trova una propria soluzione che non è il risultato di una credenza ma di un’esperienza. Il processo attraverso cui il Buddha arriva alle sue conclusioni può essere riassunto come segue:

1.    La vita è sofferenza.
2.    La sofferenza proviene dal desiderio.
3.    Il desiderio è dovuto all’ignoranza.
4.    Vincendo l’ignoranza si conquista la sofferenza, e ciò avviene seguendo l’ottuplice sentiero della retta condotta.

Il Buddhismo nella visione di Sri Aurobindo e Mère

Non è questa la sede per descrivere nei dettagli l’ottuplice via tracciata da Buddha; ci basti dire che essa ha come scopo di far arrivare ciascuno all’esperienza suprema che lo libererà dalla catena delle rinascite, sfuggendo così definitivamente alla sofferenza che è indissolubilmente legata alla vita nel mondo.
Questa esperienza culminante è il Nirvana, uno stato in cui si è proiettati nell’infinito perdendo il senso della propria individualità. Il mondo fenomenico (il nostro mondo reale, legato ai sensi fisici) non ha più presa sul nostro essere che, soverchiato da questa esperienza, ora nega il mondo fisico come illusorio. È un’esperienza spirituale che Sri Aurobindo definisce come irresistibile:

la grande esperienza della liberazione, la consapevolezza di qualcosa che è situato dietro l’universo oltre tutte le sue forme, i suoi interessi e scopi, le sue circostanze e i suoi avvenimenti – calmo, incrollabile, indifferente, illimitato, immobile, libero; è un’alta visione di ciò che ci sovrasta, indescrivibile e inafferrabile, in cui possiamo dissolverci abolendo la nostra personalità”.

(Lo Yoga della Conoscenza, pag. 14)

La via del Buddha non è quindi dissimile da quella di Sankara esaminata nei ‘domani’ del 2013. Sia Buddha che Sankara hanno visto il mondo come un qualcosa da cui fuggire. Alla base delle due concezioni vi è la stessa, possente, prorompente esperienza che questi due giganti dello spirito hanno vissuto e voluto trasmettere agli uomini. Le grandi anime, infatti, non vengono per loro stesse, ma per gli altri che, ancora asserviti all’ignoranza, sono comunque destinati a ricevere l’illuminazione.
Buddha si è imposto di rinunciare alla liberazione e di reincarnarsi fino a quando anche l’ultima anima sulla terra non sarà liberata. È il Grande Sacrificio del Dio, che rinuncia al bene più grande cui un essere umano possa aspirare per aiutare gli altri.
Tuttavia, per quanto grande tale realizzazione possa essere, per quanto sublime l’obiettivo, Sri Aurobindo ci dice che il destino dell’uomo non risiede solo nel raggiungimento di un mondo nell’Aldilà. Se oggetto della conoscenza spirituale è il Supremo, il Divino, l’Infinito, l’Assoluto, Egli è tale non solo nel suo aspetto Trascendente, ma anche nella sua Manifestazione, qui sulla Terra. Se così non fosse, se tutte le pene e gli affanni del mondo esistessero solo per essere fuggiti, la vita sarebbe uno strano incidente, un paradosso lontano da una perfezione divina.

È vero che, presi a sé, la mente e la vita e tutto ciò che si trova su questa terra, non hanno gran senso e volerglielo dare è vivere nell’illusione, maya; ma rivelano un senso supremo se guardati alla luce del Supremo.
[…] È questa l’esperienza che tutto riconcilia, il vero fondamento di una conoscenza di sé e del mondo, integrale, intima, profonda.”

(Sri Aurobindo – Lo Yoga della Conoscenza, pag. 15)

E Mére afferma:

A cosa serve aver tanto lottato, tanto sofferto, aver creato qualcosa che, almeno nella sua apparenza esteriore, è talmente tragico e drammatico, se è semplicemente per insegnarci ad uscirne; sarebbe stato meglio non incominciare!... L’evoluzione non è un cammino tortuoso per ritornare un po’ malconci al punto di partenza; al contrario è per insegnare all’intera creazione la gioia d’essere, la bellezza d’essere, la grandezza d’essere, la maestà di una vita sublime, e lo sviluppo perpetuo, in un eterno progresso, di questa gioia, di questa bellezza, di questa grandezza; allora tutto ha un senso.”

(Entretiens 1958, pag. 231)

E nel commento al Dhammapada aggiunge ancora:

Non aspettatevi niente dalla morte, la vita è la vostra salvezza. In essa bisogna trasformarsi. Sulla terra si progredisce, sulla terra si realizza. È nel corpo che si consegue la vittoria.”

Per raggiungere questo più ambio e comprensivo obiettivo, l’esperienza del Samadhi non è più sufficiente. Essa presenta infatti uno svantaggio fondamentale:

Quando la trance cessa, il filo si rompe e l’anima ritorna alle distrazioni e all’imperfezione della vita esteriore, rimanendo, come solo effetto sulla vita esteriore, l’elevazione che può produrre il ricordo generale di queste esperienze profonde.”

(Sri Aurobindo – Lo Yoga della Conoscenza, pag. 214)

Certo, il mondo è sofferenza, ma lo stesso Buddha aveva affermato che la sofferenza viene da un’ignoranza che dobbiamo superare. Sri Aurobindo ci dice tuttavia che non è necessario fuggire la vita e il mondo per conquistare l’ignoranza. Dio è ovunque, regna ovunque. E se il Dio trascendente impera su un universo immobile e silenzioso, è sempre Lui che genera la forma e il suono. È il Purusa che sostiene Prakrti in tutte le sue molteplici attività. L’uno è il Dio statico, immerso nel Silenzio e nella Pace, l’altro è il Dio dinamico, che si esprime nelle infinite varianti di forma, vita e mente:

La liberazione, il silenzio e la quiete senza fine, non sono che l’eterna realizzazione nell’individuo dell’essenza del suo essere cosciente: una realizzazione in sé statica. Rimane ancora, oltre di essa e sulla sua stessa base, non annullata nel silenzio, connaturata alla libertà, l’evoluzione infinita nel Brahman verso il suo compimento, la sua manifestazione dinamica nell’individuo, e, attraverso questi, il suo esempio e la sua azione sugli altri e sull’universo intero, l’opera intera che i Grandi vengono appunto a compiere sulla terra. […] La vera divina realizzazione del Brahman nella manifestazione non è possibile che sulla base della coscienza del Brahman, quando la stessa anima liberata accetta la vita.”

(Sri Aurobindo – Lo Yoga della Conoscenza, pag. 20)

tratto dalla Rivista “Domani” febbraio 2014
Anno XLVI n. 188
a cura della Redazione

 

 

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