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637. La Nascita della Filosofia di Guido Pintonello

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Quando si parla di mito greco si parla soprattutto di Esiodo che, nella Teogonia, il cui titolo propriamente significa “generazione degli dei”, ci narra l’origine degli dei e le successive generazioni divine. In apertura leggiamo: “All’inizio, per primo, fu il Cháos; in seguito quindi la Terra dal largo petto, dimora sicura per sempre di tutti gli immortali, che abitano le cime del nevoso Olimpo, ed il Tartaro tenebroso nei recessi della Terra dalle larghe vie; quindi venne Eros (Amore), il più bel frutto degli dei immortali, colui che scioglie le membra, che di tutti gli dei e di tutti gli uomini doma nel petto l’anima ed i saggi consigli” (1).
Nella lingua greca matura, quella ad esempio di Platone e di Aristotele, Cháos significa “mescolanza”, “magma”, “disordine”; ad essa si contrappone la parola cosmo con cui si intende ciò che ha ordine, ciò che è uscito dal disordine del cháos. Questo impiego delle due partole lo troviamo, ad esempio, in un passo celebre del Timeo dove Platone afferma: “L’artefice persuase la Terra-madre, senza posa, in disordinato e confuso movimento travolta, a passare dal cháos al cosmo, ritenendo tale condizione in ogni senso superiore alla prima”. Qui Platone ribadisce l’impianto mitologico che concepiva la Terra-madre come qualcosa di indipendente dal divino, la cui azione non consiste nella creazione, ma nel portare il tellurico disordinato (cháos) alla situazione di ordine (cosmo) (2).
Eppure queste due parole hanno alla radice un significato più originario, quello per cui è possibile leggere nel mito l’antica traccia di quello che sarà poi lo sguardo filosofico. A questo proposito è utile ricordare che la radice indoeuropea della parola cháos è cha che interviene in vari gruppi di parole quali chásco, cháino che significano “mi apro”, “mi dischiudo”. Questo riferimento alla radice ci consente di pensare che cháos originariamente non significava tanto disordine e mescolanza, quanto quell’apertura che Esiodo colloca “all’inizio” e “per prima”, prima della stessa Terra, “nata in seguito”, e prima di tutti gli dei, dal momento che oggi teogonia e ogni cosmogonia, ogni generazione di dei, di uomini e di mondi accadono dopo di essa e all’interno di essa. Annunciandola “all’inizio” e “per prima”, Esiodo anticipa quella che poi sarà la prima categoria filosofica: la totalità, ovvero la dimensione che non lascia fuori di nulla, e che perciò include ogni possibile situazione cosmica, umana e divina.
Questa dimensione manca a tutta la sapienza orientale, sia indiana che cinese, così come manca alla sapienza ebraica che fa incominciare ogni cosa da Dio (3).
Risalendo all’etimo più originario della parola cháos si ha una ripercussione sul quel termine corrispettivo dato dalla parola cosmo che l’uso linguistico ha sempre impiegato come contrappunto del cháos. Tradotto come solitamente lo si traduce, cosmo significa ordine, e precisamente quell’ordine che si realizza nel mondo fisico, per cui si parla di ordine cosmico contrapponendolo, ad esempio, a quello spirituale o divino. Ed è proprio assumendo il termine in questa accezione che Aristotele dice che i primi filosofi, proprio perché si interessavano del cosmo, erano dei fisici.
In realtà la parola cosmo si rifà a quella radice indoeuropea kens che si ritrova anche nel latino censeo che, nel suo significato più pregnante, significa: annuncio con autorità, decreto. Un passo di Tito Livio ad esempio dice: “Bellum Samnitibus et patres consuerunt et populus iusit” (4).
Cosmo è dunque quella parola che si impone e, imponendosi, non può essere smentita. Nel suo più antico significato cosmo non è quindi l’ordine o il mondo, da cui la parola moderna “cosmologia”, ma è ciò che si impone sopra tutto, sopra anche le parole degli uomini, per cui Eraclito potrò dire: “Non ascoltando me, ma il logos, è saggio riconoscere che tutto è uno” (5). Ma che cosa si impone nell’apertura dischiusa del cháos? Il mito ci ha portato dalle tenebre oscure della Terra-madre alla luce diffusa dalla volta celeste; poi, retrocedendo da questo due figure, comuni tanto al mondo greco quanto al mondo orientale, ha detto cháos: apertura originaria e totale al cui interno si impone una parola. Questa retrocessione ad una figura più originaria del cielo e della terra, sconosciuta al mondo orientale, è solo ed esclusivamente greca, e da essa prende avvio quell’episodio, ignoto all’Oriente, che da oltre due millenni andiamo chiamando filosofia. La parola filosofia significa letteralmente aver cura (philo) del sapere (sophía). Se si accetta l’ipotesi che in sophía si riflette –come nell’aggettivo saphés, che significa “chiaro”, “manifesto”, “evidente”- il senso di pháos, la “luce”, allora filosofia significa l’aver cura per ciò che si manifesta nella luce. La correlazione tra illuminazione e sapere è anche il cardine della grande sapienza orientale, ma il greco, rispetto all’orientale, fa un passo in più, un passo che sarà decisivo per la storia della filosofia. A differenza dell’orientale, infatti, che descrive quanto sta nella luce nelle modalità in cui l’illuminazione interiore glielo manifesta, il greco lo descrive nelle modalità in cui si dà. Questa differenza è la stessa che corre tra mito e logos, una coppia di termini la cui sorte è solidale a quella appena considerata tra cháos e cosmo (6). In Omero, la parola mito significa in alcuni casi “parola”, “notizia”. “Dammi notizia (mython) del figlio”, implora Achille nell’Ade; in altri significa addirittura la cosa stessa: “Rimetti la cosa (mython) agli dei”. In questo secondo caso troviamo la parola nell’Elettra di Euripide: “Conoscerai la cosa (mython) com’è”. Successivamente, proprio per la comparsa di un altro tipo di racconto o discorso chiamato logos, le narrazioni mitiche, fino ad allora accolte con la stessa serietà con cui più tardi lo saranno quelle filosofiche, assumono il carattere fabulatorio di “leggenda”, “favola”, “fola”, “mito” come appunto noi ancora oggi lo impieghiamo. Valga per tutte l’icastica espressione di Platone nel Sofista quando, a proposito del sapere dell’essere, dice che non è il caso di “raccontar favole (mython)” (7).
Il mito ha in comune col logos l’intento di conoscere e spiegare il mondo, per cui il passaggio dall’uno all’altro non è un passaggio dalla favola alla verità, ma tra due diversi modi di perseguire quell’intento.
Per il mito non c’è la realtà che non si risolva nel mondo interiore soggettivo, ampliato e proiettato verso l’esterno, così come non c’è un mondo interiore come realtà psichica del soggetto, che non sia proiettata e reificata in forme di potenze divine. La narrazione mitica vive quindi la soggettivamente della realtà esterna e l’oggettivazione del mondo interiore. Per effetto di questa saldatura, per il mito non c’è mondo che non si risolva nella visione collettiva del mondo, per cui in ogni mito è possibile leggere una determinata fase di sviluppo della coscienza sociale collettiva. In questo contesto acquista tutto il suo rilievo l’espressione, già riportata, di Eraclito: “Non ascoltando me, ma il logos…”. L’esclusione della soggettività e della manipolazione dell’interprete viene così a segnare il passaggio dal mito al logos, dalla descrizione delle cose per come sono vissute da chi le narra alla loro descrizione per come si danno. Il senso della parola logos è illuminato dall’uso greco del verbo léghein che significa “stendere” e insieme “raccogliere”.
Il logos è dunque quella raccolta originaria dove le cose giacciono nella loro esposizione e, così esposte, si offrono alla presenza.
Questo significato originario del logos consente di accedere al senso derivato di léghein come dire, dove a dire non è l’uomo, ma le cose stesse che, nella loro esposizione, si dicono come si danno. Nel raccoglimento del logos, l’uomo, con la sua parola, dice (léghei) come le cose nella loro esposizione si danno. Mentre nel mito le cose sono usate per dire il vissuto dell’uomo, nel logos le cose sono lasciate essere così come sono, senza alcuna manipolazione (poiéin).
La parola poiéin in greco significa “produrre”. Da poiéin deriva la parola poiesi la cui la nostra poesia. La poesia, di cui si alimenta il mito, è una produzione di significati che non lascia parlare le cose come sono, ma impone alle cose il parlare dell’uomo.
Questa imposizione non è l’imporsi delle cose, ma ciò che l’uomo impone alle cose, in altri termini è la violenza poetica sul contenuto quale si dà. La filosofia rappresenta il tentativo riuscito di liberarsi da questa imposizione, affinché nel cháos si imponga il cosmo, qui inteso come ciò che ha la forza di imporsi. La parola greca che nomina l’imporsi di ciò che ha la forza di farlo senza ricorrere alla manipolazione poetica è epistéme (8). Epistéme è una parola che viene resa in latino con scientia e in italiano con “scienza”. Ma così tradotta la parola perde il suo significato originario che è poi lo stesso di quello indicato dalla parola cosmo. Epi-stéme, infatti, è composta dal verbo ístemi che vuol dire “sto” e da epí che vuol dire “sopra”, ciò che si impone da sé, e che quindi non ha bisogno di appoggiarsi all’autorità di chi parla, come accade nel linguaggio mitico-religioso, né alla forza persuasiva del dire retorico che, con la seduzione, riscuote consensi.
Emancipandosi dal discorso mitico, religioso e retorico, la filosofia, inaugurandosi come epistéme, si offre come quel dire che poggia esclusivamente su di sé. Cosmo, logos, epistéme appaiono a questo punto come sinonimi che dicono l’imporsi di ciò che nella luce si mostra, è cura della verità. La parola “verità” in greco è resa da alétheia, una parola composta da un A privativo lantháno che significa “restar nascosto”, da cui in italiano “latente”, “latitante”. Alétheia vuol dire allora il non-nascosto, quindi ciò che si mostra e, proprio perché si mostra, si impone (9).

Guido Pintonello
tratto da Conoscenza (Anno XXIX – n° 6/1992 – 1/1993)
Rassegna bimestrale dell’Accademia di Studi Gnostici e Iniziatici

 

Note
1 Esiodo. Teogonia. a cura di W. Jaeger, Rizzoli, Milano 1990, p. 87
2 AA. VV. Il Pensiero Greco, a cura du R. Mondolfo, La Nuova Italia, Fienze 1979, p. 182 e segg.
3 Concorda con questa tesi anche il libro di M. Detienne, La pantera profumata, Laterza, Bari 1983
4 La citazione: “I Senatori annunciarono con autorità la guerra contro i Sanniti e il popolo approvò il decreto” è tratta da Tito Livio, Storia di Roma dalla sua fondazione, Rizzoli, Milano 1981, II Volume, p. 56
5 Eraclito, Testimonianze e frammenti, a cura di R. Mondolfo, La Nuova Italia 1970, p. 78
6 Si veda in particolare l’edizione della Teogonia di Esiodo con la precisa e illuminante introduzione del grande grecista W. Jaeger
7 M. Detienne, op. cit., p. 122
8 A. Pagliaro, Eraclito e il Logos. Saggio di critica semantica, Sansoni 1950; si veda soprattutto i due capitoli iniziali
9 ivi., p. 66

 

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