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723. Natura della Religione Vedica di Candraśekharendra Sarasvati

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Dovremmo sforzarci di coltivare sentimenti nobili ed elevati e, eliminando pensieri malvagi ed egoisti, vivere in uno spirito di devozione verso il Signore e di amore per il prossimo. L’elevazione dell’uomo è proporzionale alla nobiltà delle sue azioni e dei suoi pensieri. Il servizio disinteressato, la disponibilità al sacrificio, la devozione verso il Signore, l’amore e la benevolenza verso tutti, la mancanza totale di odio, sono propri di una mente altamente armonizzata e sono ciò che si intende per cultura. In sanscrito la cultura è conosciuta come kalā, e arti quali musica, pittura, ecc., sono considerate come espressione esteriore di questa elevata cultura.
È interessante notare l’affinità verbale esistente tra parole quali kalā, cultura, kal (parola tamil per “imparare”), kalāśāla e collegio. Un uomo di cultura è vicino al mondo intero, è amico di tutti e nessuno gli è nemico; egli considera i tre mondi come la propria terra. Il grado di cultura di un paese viene giudicato dalla nobiltà di cuore dei suoi abitanti presi nel loro insieme (anche se possono esserci individui con difetti e carenze) e si riconosce dai detti ispirati dei suoi poeti immortali i poemi dei quali hanno superato la prova del tempo. Questi sublimi poemi sgorgano dalla pienezza dei loro cuori e sono l’espressione della nobile cultura che rappresentano e in cui sono immersi. I grandi poeti non hanno alcun bisogno di portare l’acqua al proprio mulino; non accordano privilegi a teorie o a punti di vista che debbono essere difesi; non hanno alcuna necessità di introdurre argomenti speciosi nella propria poesia: esprimono la verità, e la propria intuizione dà loro il coraggio delle proprie affermazioni. La loro autorità viene accettata come prova della cultura del popolo che li ha visti sbocciare. Omero e Shakespeare sono due esempi di tali poeti in Occidente, mentre nel nostro paese Kālidāsa e Bāna sono senza pari. Si dice che l’anulare in sanscrito sia stato chiamato anāmika (senza nome) perché una persona che voleva contare i grandi poeti iniziò a contare Kālidāsa con il mignolo, ma non riuscendo a trovare nessuno che potesse essere nominato con l’anulare fu costretto a lasciarlo “senza nome”. Per quanto riguarda la grandezza di Bāna, un detto riporta che gli altri poeti usano le briciole lasciate nel piatto di Bāna. Questi due poeti vengono ora considerati come grandi maestri, il loro giudizio viene ritenuto autorevole non solo per gli aspetti culturali ma anche in questioni religiose.
Nell’ambito della nostra vita giornaliera spesso siamo chiamati a definire la natura dei nostri doveri, o dharma. Sorge allora la domanda: qual è il nostro dharma e da quale autorità deriva? Normalmente, sono gli atti della legislatura, cioè le leggi dello Stato, che regolano la nostra condotta pubblica. La loro efficacia è sancita dalla Costituzione adottata dai rappresentanti del popolo che sono anche coloro che promulgano le leggi. Non abbiamo bisogno di molte argomentazioni per dimostrare che i votanti si trovano a livelli morali e intellettuali molto diversi e che non tutti i rappresentanti che essi eleggono sono i migliori disponibili. Un simile stato di cose è inevitabile in questo mondo imperfetto. Anche alcune leggi possono non esser perfette da un punto di vista morale, e questo è il motivo per cui occasionalmente alcuni giudici hanno affermato che certe decisioni sono state prese in conformità con la legge, pur non essendo affatto convinti della correttezza morale della legge stessa.
Nella nostra condotta personale e morale, sintetizzata con il termine dharma, la nostra religione dichiara che dovremmo essere guidati dalle ingiunzioni dei Veda. Si dice che “i Veda sono la fonte di ogni dharma”. Un detto illustra molto bene la vastità dei Veda: ciò che il Saggio Bharadvāja è stato in grado di imparare può essere paragonato a una manciata di terra presa da quella montagna che sono i Veda. Se sorge un dubbio che non può essere risolto facendo riferimento ai Veda, allora ci si ingiunge di cercare una risposta nelle Smrti. Considerare legislatori gli autori delle Smrti, come Manu, Yājnavalkya e Pārasara, non è corretto. Le Smrti sono soltanto degli aide memoire o annotazioni, atte ad indicare ciò che è contenuto nei Veda. Gli autori delle Smrti non hanno scritto nulla di nuovo rispetto a quanto è contenuto nella Śruti o Veda. Ciò è sostenuto anche da Kālidāsa il quale, descrivendo il modo in cui Satiksnā seguiva per un breve tratto il marito, il re Dilipa, allorché questi portava a pascolare Nandini ogni mattina, afferma che ella seguiva le orme di Nandini, come la Smrti segue il significato (le impronte) della Śruti.   
Kālidāsa ha così stabilito, senza ombra di dubbio, che la Smrti deriva la propria autorità dai Veda e, proprio come Satiksnā segue Nandini solo per un breve tratto, indica in modo conciso ciò che è contenuto nella Śruti.
Se per chiarire i nostri dubbi non siamo in grado di avvalerci né della Śruti né della Smrti , allora ci si richiede di farci guidare dalla condotta di coloro che conoscono e seguono le Smrti. Se anche questa guida non è disponibile, ci si richiede di improntare la nostra condotta al modo delle persone buone che hanno dominato i desideri e il senso dell’io e sono puri di cuore. Quando anche questo tipo di guida viene meno, dobbiamo seguire i dettami della nostra coscienza; è così che il re Dusyanta si arrende all’amore che divampa in lui alla vista di Śakuntalā, nell’aśrama del saggio Kanva. Consapevole del fatto che non era giusto per uno ksatriya innamorarsi della figlia di un saggio, egli conclude che nessun pensiero impuro era passato nella sua mente prima di quell’incontro e che quindi la sua coscienza non avrebbe potuto farlo innamorare della persona sbagliata.
Oggigiorno va di moda affidarsi alla coscienza e relegare a un posto di secondo piano qualsiasi altra guida prevista dagli Śāstra ; spesso si arriva addirittura a condannare gli Śāstra considerandoli antiquati, privi di significato e irrazionali. Ma secondo gli Śāstra , il ricorso alla coscienza viene per ultimo e cioè quando non possiamo appellarci a tutte le altre guide, come Śruti, Smrti, ecc.. Il punto di vista moderno riguardo all’autorità concernente il dharma si contrappone alla visione classica. Quest’ultima ha superato la prova del tempo e rappresenta la base di riferimento perenne per quanto riguarda il comportamento etico. Essa è stata espressa nei detti dei grandi poeti (mahākavi), come Kālidāsa, la cui voce è la Verità che è loro gloria e prerogativa.
I critici, soprattutto stranieri, accusano di politeismo la religione vedica, ma ciò scaturisce solo dall’ignorare l’insegnamento fondamentale dei Veda.
A questo proposito Bāna in un suo verso dice che l’unica Divinità appare sotto la triplice forma di Brahmā, Visnu e Śiva per un triplice scopo, cioè, creazione, protezione e dissoluzione, le cui funzioni sono determinate rispettivamente dalle qualità o guna di rajas, sattva e tamas. Quell’uno è il non-nato (aja) ed è causa di questo triplice processo; è trayimaya, formato dalle tre qualità su menzionate; egli è anche trayimaya perché viene proclamato dai Veda (trayi). Kālidāsa esprime più o meno la stessa idea quando dice che una manifestazione formale appare trina e non vi è motivo di ritenere uno dei tre aspetti superiore o inferiore agli altri due. Se Brahmā, Visnu e Śiva sono Uno in essenza, allora, per lo stesso motivo, tutte le Divinità del Pantheon indù in ultima analisi non sono che Uno. Stando così le cose, non c’è alcun motivo per ritenere che una divinità sia superiore a tutte le altre. Alcuni affermano che soltanto quella che essi adorano è la divinità suprema. Per un uomo che si trovi sotto la prima arcata di un ponte tutte le arcate successive appariranno più piccole di quella sotto cui si trova; ma in realtà le arcate del ponte sono tutte della stessa ampiezza. Allo stesso modo, colui che adora una divinità particolare, considera inferiori tutte le altre divinità e ciò per via dell’attaccamento sentito verso la divinità scelta; ma la verità è che esse sono tutte manifestazioni particolari di un solo Dio.
Dio è la fonte di tutte le cose del mondo. Se consideriamo il caso di un albero vedremo che sono la terra e l’acqua a permettere al seme di crescere e di diventare un albero possente. L’acqua e la terra sono le fonti che hanno permesso all’albero, contenuto in potenza nel seme, di venire in manifestazione. Durante la sua esistenza saranno sempre la terra e l’acqua a sostentarlo; quando morirà si risolverà nella terra e nell’acqua da cui ebbe origine; l’essenza o ragione dell’albero è la terra. Ciò è vero per tutte le cose materiali che, come gli alberi, costituiscono il mondo. Il principio di un’unica e identica fonte si può estendere alle altre forme della creazione, fino a includere gli animali dotati di intelligenza. Come c’è un suolo “universale” dietro il suolo “individuale” da cui ha origine l’albero, per mezzo del quale vive e nel quale si riassorbe, ci dev’essere anche un’Intelligenza superiore di cui le nostre intelligenze non sono che minuscole frazioni. Quell’Intelligenza superiore o cit è Dio; Egli è ānanda o beatitudine, e sat o esistenza. Con il guna rajas Egli dà origine alla creazione, con il guna sattva la sostiene e conserva e con il guna tamas la riassorbe in . Così Dio è trigunātma, Uno che appare come tre.
Il Brahman supremo (parabrahman), che è senza attributi (nirguna), che è pura essenza appare come Dio personale o Iśvara per adempiere alle funzioni di creazione, protezione-conservazione e riassorbimento-dissoluzione. Ma Iśvara, che è un Principio immobile, deve divenire dinamico per portare in atto la creazione. L’energia necessaria è fornita dal guna rajas; con esso, il Dio primordiale e unico appare come Brahmā, il Creatore. Ciò che è creato deve esser mantenuto, deve crescere e prosperare; ciò viene attuato da Iśvara che, con il guna sattva, assume l’aspetto di Visnu, la cui consorte è Laksmi, incarnazione e donatrice di prosperità. Per provocare la morte o la fine delle cose create, Iśvara con il guna tamas assume l’aspetto di Śiva. È bene sottolineare che la dissoluzione non significa crudeltà da parte di Śiva. Essa è invece il segno della sua compassione per il creato, grazie alla quale concede riposo, per la durata di un pralaya, alle anime immerse nell’ignoranza-avidyā e che hanno ancora del karma da scontare a causa del quale saranno sospinte in un ciclo successivo di nascite. In realtà Iśvara non è toccato da questi tre attributi-qualità-guna (tamas, rajas, sattva). Egli è pura essenza, si nasconde in ognuno dei tre guna e appare quindi sotto varie forme per scopi ben definiti. Solo le sue apparenze sono diverse, non la sua essenza che rimane del tutto inalterata.
L’attribuzione delle caratteristiche di rajas, sattva e tamas rispettivamente a Brahmā, Visnu e Śiva, non è assoluta. Visnu, considerato il simbolo del sattva, a volte assume la caratteristica del tamas che è il simbolo della distruzione, come nel caso del suo avatāra Narasimha. Egli assume la caratteristica del tamas nel caso dell’avatāra Rāma, quando questi combatte Khara Dūsana, Kumbhakarna e Rāvana, come pure quando minaccia di prosciugare l’oceano. Vālmiki descrive molto bene questo aspetto quando dice che Rāma evocò in sé un’ira intensa, e l’ira è l’effetto del tamas. D’altra parte Śiva, la cui natura è caratterizzata dal tamas, essendo la manifestazione preposta alla distruzione, prende le caratteristiche del sattva nelle proprie manifestazioni di Natarāja e Daksināmūrti.
Così queste tre forme di Dio non sono distinte e diverse, sono le manifestazioni della stessa divinità che assume aspetti diversi per scopi diversi e secondo le preferenze e i gusti dei vari fedeli. È errato parlare di gradi di superiorità tra loro o dire che sono differenti; le forme possono apparire diverse, i nomi possono essere diversi, ma la Verità è una. È l’Uno che diviene tre, e poi trentatre e così via, secondo la varietà inimmaginabile delle funzioni della divinità. Questo è il fatto fondamentale dichiarato dai mahākavi e le loro parole devono esserci di guida nella devozione e nelle pratiche religiose.

Candraś ekharendra Sarasvati
tratto da L’Appello dell’Acarya
I Discorsi di Madras
Edizioni Asram Vidya

 

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