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170. Veda a cura di Jean Varenne

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Le Scritture sacre dell’India più antica (Il millennio prima della nostra era) formano una massa considerevole di testi che gli indù chiamano Veda, parola sanscrita che significa: “Sapere, Scienza”. Tale scienza fondamentale è di tipo esclusivamente rituale. Il suo nucleo è formato da lunghi Trattati in cui la liturgia del sacrificio vi è minuziosamente descritta, senza che alcun dettaglio sia omesso. Inoltre, il minimo gesto, la minima parola sono giustificati in riferimento alla mitologia: si dirà, ad esempio, che se si deve presentare in offerta al dio Pushan una zuppa di cereali è perché egli è sdentato, e la sua infermità è dovuta al fatto che egli consumò inavvertitamente una pietanza contenente una goccia dello sperma caduto dal sesso di Prajapati, il Dio creatore … Altrove si giustificherà in modo analogo il fatto che si debba utilizzare un certo mantra in un particolare momento della cerimonia, o che un determinato strumento liturgico debba essere tagliato nel legno di un certo albero, e così via.

Come si può immaginare, questa letteratura è sconfinata: in volumi, il Veda nel suo insieme equivale a diverse Bibbie! Tanto più che ai cantici, ai salmi, agli inni suscettibili di essere utilizzati nel culto, e che generalmente sono parte integrante della raccolta, si aggiungono anche indicazioni di carattere giuridico (nel senso canonico del termine: chi ha diritto a ricevere un certo sacramento, eccetera), sociale (caste, diritto di famiglia, eccetera), o politico (scelta e investitura del re, diritti e doveri di questi, eccetera). Nel suo insieme l’enorme complesso dei testi vedici somiglia a una sorta di enciclopedia, e difatti da quaranta secoli lo si è utilizzato in questo modo (e lo si fa tuttora) negli ambienti clericali investiti dell’autorità spirituale dalla tradizione, rispetto al potere temporale che, da parte sua, ha sempre provato ad affermare la sua autonomia, senza mai riuscirvi pienamente, salvo forse in epoca contemporanea.

Quanto al contenuto ideologico, si tratta di un politeismo religioso fondato su una duplice affermazione: da una parte, l’universo presenta una complessità che sfida la ragione, e dall’altra il “mondo inferiore” (il microcosmo, ove viviamo) è “a immagine e somiglianza” di quello superiore (il macrocosmo, ove vivono gli dèi). Così, ad esempio, la società umana è simile (o dovrebbe esserlo) a quella del pantheon. Ora, il Veda evoca come “naturale” una struttura rigorosamente patriarcale, nella quale contano soltanto i maschi, uomini o dèi. Di conseguenza, salvo rare eccezioni l’elenco delle divinità che occorre invocare quando si offrono i sacrifici che scandiscono l’anno liturgico non presenta che nomi di divinità maschili: Agni, Varuna, Mitra, Indra, Surya, Bhaga, eccetera sono tutti maschi, e assumono funzioni cosmiche simili a quelle dei capifamiglia che operano sulla terra secondo la casta professionale alla quale appartengono sin dalla nascita. Sury, ad esempio regola il corso del sole, come l’Apollo greco, Indra svolge il medesimo ruolo guerriero dell’Ares ellenico e del Marte latino. Ma lo fanno con maggiore indipendenza rispetto ai loro omologhi dell’Antichità classica, poiché i loro propositi non vengono mai contrastati da una Giunone (Era), una Venere (Afrodite), una Minerva (Atena), che non hanno equivalenti nel Veda.

Resta il fatto che se il mondo superiore dev’essere come il mondo inferiore, gli dèi dovrebbero avere delle spose, così come accade per gli uomini. In effetti di tanto in tanto si vedono emergere in modo assai furtivo alcune indicazioni sulle paredre di determinati dèi. Sono dee che vengono abitualmente designate con un semplice aggettivo di appartenenza: Indrani “colei che è di Indra”, Varuni “colei che è di Varuna”, Surya “colei che è di Surya”, e così via, senza ulteriori indicazioni. La maggior parte degli dèi (Mitra, Bhaga, eccetera), invece, non sembra avere delle spose. In alcuni rari casi, infine, i testi vedici forniscono i nomi di dee autonome: Sarasvati, Savitri, Ushas, Aditi, eccetera.

Autonome ma non veramente indipendenti: Savitri non è che il femminile di Savitar, uno dei nomi di Surya; Aditi esiste solo in rapporto agli dèi Aditya. Gli altri pseudo-nomi di dee sono unicamente appellativi che designano fenomeni naturali: Ushas è l’”Aurora”, Sarasvati il “Fiume”; delle Acque (in sanscrito: apas) si dice poi che sono dee, e si celebra la Notte come una divinità “piacevole” (ratri). Lo stesso accade con “potenze” come Vak: la Parola, o Anumati: la Buona-Grazia, eccetera. Al limite, ogni parola sanscrita, se grammaticalmente femminile, può diventare un nome di divinità femminile, allorché designa qualcosa (preferibilmente una forza, un potere) che reca un beneficio. La Parola, ad esempio, dev’essere esaltata, poiché essa è il “Veda fatto Suono”, ed è il veicolo della preghiera. Le Acque sono venerate nella misura in cui il loro utilizzo nei riti di lustrazione dà testimonianza del loro potere di purificazione.

Ma occorre insistere sul fatto che la lista dei nomi divini al femminile è assai breve, e che le dee così elencate non hanno praticamente alcuna esistenza mitologica. Si è all’opposto, ripetiamolo, rispetto a ciò che si osserva ad Atene e a Roma. È giusto tuttavia segnalare che la mitologia greco-romana, così come la conosciamo, è esclusivamente post-omerica: essa equivale dunque a quella che in India è collegata all’Epopea (Mahabharata, Ramayana) e ai Purana, non al Veda. Ora, anche in India la personalità delle dee non ha cessato di affermarsi dopo il Veda: Lakshmi, paredra di Vishnu, ha un’importanza considerevole nella devozione indù “classica”, mentre nei testi vedici Vaishnavi (“colei che è di Vishnu”) non è che una sorta di “fantasma divino”, se così si può dire!

Tale precisazione era dovuta perché il lettore non credesse che il Tantrismo fosse già presente nel Veda. D’altra parte sarebbe stato un peccato non fornire alcuni testi delle Scritture più venerabili dell’India antica, non fosse anche solo per mostrare come la dimensione sessuale dell’esistenza non venisse ignorata dai liturgisti antichi, e come essa abbia potuto ispirare testi non sprovvisti di valore letterario. Ora, la sessualità può intendersi in due modi: l’erotismo o la procreazione. Il Veda conosce questi due aspetti e sa perfettamente distinguerli (ovvero contrapporli). Ciò lo si constaterà tra poco in alcuni inni, come quello indirizzato all’Aurora, evocata sotto i tratti di una bella ragazza che “viene all’uomo” (gesto provocatore in una società patriarcale) e si svela il seno per risvegliare il desiderio. Lo stesso vale per la Notte, il cui nome, Ratri, presenta una connotazione erotica: “donna che dà il piacere”. Infine, e soprattutto, la poesia magica, in cui si invoca “la follia d’amore”, vale a dire l’ardore del desiderio (smara) che ammalia colui che ne è vittima.

Anche l’altro aspetto della sessualità, quello concernente la procreazione, non poteva non essere rappresentato qui. Nella sua prospettiva, il Veda, allorché lo evoca (il che, ripetiamolo, è assai raro), utilizza immagini di tipo agricolo: la donna è assimilata a un campo, lavorato dall’aratro del contadino che successivamente sparge i semi nei solchi che ha tracciato. Il membro virile è simile al vomere, lo sperma è la semenza e il sesso femminile è associato al solco. Il ruolo della donna, quindi, è inizialmente passivo: viene “lavorata”, e poi fecondata dall’uomo che è l’unico a svolgere un ruolo attivo. Si è dunque agli antipodi del Tantrismo, che, come si è detto, fa dell’energia femminile l’elemento preponderante nel processo creativo. Certamente il Veda riconosce che la trasmutazione dello sperma in un embrione può operarsi solo “nella donna”, il che permette di concedere a quest’ultima un ruolo decisivo nella forma degli esseri viventi, ivi compresi gli dèi, i quali sono presentati nel Veda come “persone” che hanno le medesime caratteristiche degli esseri umani, ma portate al loro massimo grado di qualità: giovinezza perpetua, salute, bellezza, senza dimenticare “l’immortalità”.

Ora, proprio questo è il punto di difficoltà. La tradizione indù, infatti, vuole che il tempo sia ciclico (circolare), e non lineare: “in principio”, l’Universo si dispiega in tutta la sua maestà a partire da una massa di materia-energia che non è altro che il residuo (shesha) di un universo precedente; alla “fine dei tempi”, ovvero quando la Ruota del Dharma (Dharma-Chakra) avrà fatto un giro completo, l’Universo imploderà, e tutti gli elementi che lo costituivano si concentreranno in un nuovo Residuo, destinato a svilupparsi a sua volta in un nuovo Universo, e così via in eterno. Da questo punto di vista è la Materia (e l’Energia che in essa è celata: Shakti) a perdurare indefinitamente, senza che vi sia mai un vero e proprio inizio, e senza che possa mai esserci una fine assoluta. Né creazione, quindi, né annientamento.

Tuttavia questo cieco meccanismo soddisfa unicamente i metafisici; esso ripugna alla coscienza religiosa, la quale desidera dire: “Grazie!” allorché contempla la serena bellezza dell’Armonia universale (in sanscrito rita, o Dharma). E allora, a chi indirizzare questo ringraziamento, se non a un Dio Signore? O a una Dea sovrana? Privilegiando il patriarcato, il Veda opta per un Dio, primo essere vivente che appare dopo l’esplosione iniziale, e lo chiama semplicemente “il Padre” (Pitar, o Mahapitar, con un prefisso di maestà); o ancora Prajapati, vale a dire il Signore (-pati, il Signore, il Padre) degli esseri viventi (praja-). Ma si può immaginare che all’inizio vi sia stato un Padre-Procreatore senza una Madre che ricevesse il seme e lo facesse fruttificare sino al tempo della rinascita propriamente detta?

Alcuni testi vedici non esitano a farlo, come quello in cui si afferma che “Prajapati ha in se stesso (atmani: nella sua anima”) la forza creatrice (prajati: “potenza di generazione”), e dalla sua bocca crea (cioè: fa apparire) gli “dèi”. D’altronde, e questo sarà un tema spesso ripreso nella mitologia postvedica, il riferimento è allo sperma che il Dio, nell’ardore del suo desiderio di generare (praja-kama), senza che egli l’abbia previsto, e senza che alcun partner intervenga, in esseri viventi di tutti i tipi: dèi, uomini, animali, piante.

È tuttavia più semplice insegnare che all’inizio Prajapati fosse in effetti un androgino: “Era grande quanto un uomo e una donna abbracciati. Egli si sdoppiò, e da quello sdoppiamento nacquero lo Sposo e la Sposa. Con lei si unì, e da quell’accoppiamento nacquero gli uomini” (testo citato di seguito, p. 82). Una situazione del genere pone evidentemente la questione dell’incesto primitivo: lo Sposo e la Sposa, come Adamo ed Eva (“uomo e donna li creò”, Genesi, 1,27), sono fratello e sorella; a meno che non si tenga presente il fatto che la Sposa, essendo stata “tratta dal corpo” del suo futuro Sposo, non sia considerata sua figlia. Nella variante del racconto biblico Eva viene formata da un Dio “a partire da una costola che aveva tratto dall’uomo” (Genesi, 2,22) e, in modo analogo, il testo vedico afferma che la Sposa s’indigna del suo accoppiamento con lo Sposo, poiché dichiara: “Egli mi ha generato” (intendiamo: egli mi ha estratto dal suo proprio corpo). Queste unioni (fratello-sorella, o padre-figlia), essendo incestuose, sono proibite, persino presso gli dèi. Si potrebbe dire: soprattutto presso gli dèi, poiché essi sono in qualche modo dei modelli per gli uomini! Esse sono tuttavia ineluttabili, se si vuole conservare un carattere sessuale all’apparizione della vita.

Un inno vedico (unico nel migliaio di inni che si sono conservati) evoca tra l’altro la situazione creatasi dopo il diluvio che, il Veda come nella Bibbia, cancellò, se si può dire, la prima creazione per far posto a una seconda. Per ripopolare la terra non rimanevano che due gemelli, Yama e Yami: era necessario che si accoppiassero, benché si trattasse di un’unione proibita (incesto tra fratello e sorella). Secondo l’autore del poema fu la donna, Yami, a sollecitare il fratello: “Entra come sposo nel mio corpo! Che io diventi tua moglie … affinché tu, che sei mortale, abbia da me una discendenza!. Ma Yama resisteva: “Non stanno mai ferme, non chiudono mai gli occhi le spie degli dèi che circolano quaggiù … Non voglio quindi unire il mio corpo al tuo corpo, poiché è ritenuto miserabile colui che ha commercio con la propria sorella!”. Benché il poeta (per pudore?) non dica nulla sull’esito di questa disputa, è evidente che l’incesto ebbe luogo, poiché l’umanità si è perpetuata … D’altronde, come dice Yami a suo fratello: “Fin dal seno materno il Creatore ci fece marito e moglie … e nessuno può infrangere i suoi ordini!”.

Una variante dello stesso mito fa di Manu l’unico Giusto che meriti di sopravvivere al diluvio purificatore. Tuttavia, meno previdente del Noè biblico, il patriarca vedico entra da solo sulla barca che lo salverà dalle acque. E quando queste ultime si saranno ritirate, per ricreare l’umanità egli dovrà foggiare una statuetta raffigurante una donna per unirsi a essa, dopo che sia stata animata dagli dèi, benché sia sua figlia!

Ancora una volta è lei a offrirsi: “Fai uso di me, e sarai ricco di discendenza …”,. Manu evidentemente non fa resistenza, dato che aveva di fatto già preso l’iniziativa creandone l’immagine: “Di conseguenza”, dichiara il testo, “lui la usò” … e d’accordo con lei generò la creazione che oggi conosciamo, e che perciò prende il nome di Creazione di Manu (Manusha) …”.

In queste pagine del corpus delle Scritture vediche è possibile scorgere (ma furtivamente!) i germi dell’ideologia tantrica: il ruolo della donna, infatti, vi viene affermato non solo nel riconoscimento del ruolo creatore della sessualità, ma anche nel fatto che si tratti di unioni illecite e, sembra, quasi sempre provocate dalla donna (mentre l’uomo resta reticente e si sente colpevole). Andando ancor più in là in questa direzione, alcuni testi sembrano “dimenticare” il ruolo di “Padre-Procreatore” a vantaggio di quello assunto dalla Madre. In un testo vedico (di seguito riportato, p. 78) si vede la Dea delle origini preparare un brodo come offerta sacrificale che, una volta consumata la parte spettante a lei, le permette di mettere al mondo gli dèi sovrani, chiamati per ciò Aditya (“figli di Aditi”, dal nome della Dea delle origini). Qui non vi è alcun riferimento a Prajapati: assumendo un po’ di brodo, la dea agisce come se ricevesse in lei il seme del dio!

Il nome stesso della dea, comunque, appare significativo: Aditi è la “Libertà”, il che parrebbe implicare il fatto che non dipende da alcuno: un inno (di seguito riportato, p. 54) afferma che diede alla luce, uno dopo l’altro, lo Spazio, il Cielo, la Terra e infine un dio, Daksha. Ella si unì a lui e dal loro accoppiamento nacquero gli altri dèi. Poiché Daksha è un altro nome per il Padre-Procreatore, Prajapati, occorre necessariamente concluderne che anche lui è nato da Aditi, per partenogenesi. E ciò vale anche quando Aditi, come si è detto nel testo succitato, generò gli dèi dopo essere stata fecondata dal brodo che essa stessa aveva preparato come offerta sacrificale. In modo analogo la Dea-Parola (Vak: cfr. il testo di seguito riportato, p. 59) dichiara di : “Sono io ad aver dato alla luce il Padre (vale a dire Prajapati) sulla sommità dell’Empireo”. Ma questo inno saluta in lei innanzitutto la Sovrana che ha preso in carico l’Universo intero, ivi compresi gli dèi che sostiene con la sua azione benevolmente. Anche qui si può a rigore intravedere il germe di una concezione tantrica della Shakti come Energia cosmica, garante della conservazione dell’Armonia universale. Ma non dobbiamo dimenticare, non lo si dirà mai abbastanza, che tali allusioni sono estremamente rare nel Veda, in quanto incompatibili con l’ideologia patriarcale che prevale in codesta Bibbia dell’Induismo.

Tratto dall’antologia di testi tantrici (Veda, Upanisad, Rituali, Inni):
“L’Insegnamento Segreto della Divina Shakti”

a cura di Jean Varenne

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