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253. Riflessi sul Sentiero di Pha-Cho-Ton

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Introduzione
Penso che ciascuno di noi sia andato a scuola e sia abituato a considerare le classi in una successione che va dalla prima all’ultima. Questa progressione è basata sul grado d’ampliamento delle conoscenze. Un alunno dell’ultima classe è passato attraverso quelle precedenti, nelle quali ha appreso ciò che era contenuto nei programmi. È dunque normale che egli sia considerato un allievo più avanzato rispetto ad uno che frequenta ancora la prima classe. Non vi è nulla di artificioso o di meritevole; è semplicemente il risultato di ciò che ha sentito ed appreso, che ha fatto di lui uno studente capace ora di seguire il programma della sesta classe.
Ugualmente, in ogni classe vi è stato almeno un maestro. Ora, quest’ultimo non è venuto dal nulla, precipitando dal cielo o tramite lo scoppio di un tuono. Ha frequentato, come ogni alunno, il corso preparatorio costituito dalle scuole elementari, poi le scuole medie inferiori, il liceo ed infine l’università o l’istituto magistrale. Ha sostenuto degli esami, speriamo con un certo successo, forse anche con qualche insuccesso.
A ogni modo, egli è “maestro” perché ha acquisito pazientemente e gradualmente conoscenze sempre più vaste.
Inoltre, quand’era all’università, aveva dei professori provvisti di conoscenze ancora più ampie che, pure loro, avevano appreso gradualmente.
Un maestro è dunque qualcuno che innanzitutto ha imparato e poi assimilato ciò che ha appreso.
È per questa ragione che per me, già insegnante universitario, è normale e logico pensare che gli esseri umani seguano anch’essi una scuola, quella della vita, nella quale certuni sono più avanzati di altri e fanno loro da maestri.
Dunque, ciò che noi chiamiamo iniziazioni, sentiero, fa parte dell’evoluzione normale degli esseri, e tutti un giorno avranno accesso ad ogni specie di conoscenze.
È opportuno fare subito una precisazione:
“ … 2° Non dipende dalla mia propria volontà di accettare qualcuno per discepolo; questa accettazione dev’essere il risultato del merito individuale e degli sforzi sostenuti per raggiungere lo scopo. Assoggettatevi a quel “Maestro” che avrete scelto; fate delle buone opere in suo nome e per amore dell’Umanità; siate puri; seguite risolutamente il sentiero della giustizia (come lo definiscono le nostre regole), siate onesti ed altruisti; non dimenticate voi stessi se non per pensare al bene degli altri ed avrete forzato il “Maestro” ad accettarvi … “ (Lettera n° 7, Prima Serie, C.Jinarajadasa).
Un’altra descrizione riguardante lo stesso argomento dice: “… Il Maestro, dall’alto, scruta la terra; quando scorge un bagliore, vi si dirige e si mette in contatto con la sorgente di questa luce. È in questo modo che il maestro individua gli allievi. Essi sono vigilanti e sorvegliano continuamente …“.
Non abbiamo bisogno di cercare il maestro e soprattutto non per mezzo di una foto, di un disegno o di una descrizione letteraria.

Preparazione
Cito ancora, come preambolo, il seguente passo tratto dalla lettera n° 7, già riportata sopra: “ … Voi chiedete: ‘Quali regole dovrei osservare durante il periodo di pronazione e quando posso sperare che comincerà?’. Vi rispondo che il vostro avvenire è nelle vostre stesse mani, come ho già detto, ed ogni giorno vi è dato poterne tessere la trama. Se io esigessi che voi faceste tale o tal altra cosa, in luogo di limitarmi ad un semplice consiglio, sarei responsabile di tutti gli effetti risultanti dai vostri atti ed il vostro merito non sarebbe che secondario. Riflettete e vedrete che ciò è vero. Così confidate il vostro destino alla Giustizia, senza mai temere che la sua risposta non sia assolutamente vera. Lo stadio del Chela è contemporaneamente educativo e probativo; dal chela solo dipende che questo stadio termini con l’adeptato o con l’insuccesso. Comprendendo male il nostro sistema i chela s’aspettano, troppo sovente, di ricevere ordini, perdendo così un tempo prezioso che dovrebbero consacrare a degli sforzi personali. La nostra causa ha bisogno di missionari, di devoti, di agenti ed anche, può darsi, di martiri ma essa non può imporre questo ruolo a nessuno. Così, fate la vostra scelta: prendete in mano il vostro proprio destino …”.
Sta a noi dunque decidere ciò che dobbiamo fare.
Possiamo, secondo i diversi libri riguardanti questo soggetto, elencare alcuni punti – che non sono necessariamente delle tappe consecutive, ma bensì convergenti e la cui successione dipende dalla natura.
È utile definire da subito cosa sia questa natura, che Patanjali definisce dharma.

Etena bhutendriyeshu dharma-lakshanavastha-parinama vyakhyatah

Quest’aforisma è una vera perla dal punto di vista scientifico, poiché Patanjali distingue per ogni cosa (Bhuta), tre caratteristiche. In primo luogo la sua natura – o la sua composizione (nel senso chimico) – ciò di cui è costituita; il termine dharma deriva da dhr, che significa mettere insieme per costruire: una casa è un dharma, fatta di legno, di pietra e di mattoni (che rappresentano, in quest’esempio, i differenti Bhuta). Il laksana è lo stato determinato dall’età della cosa. L’Avasta è la condizione – quale la salute – dell’oggetto. In fisica e in biochimica moderna, vi è la nozione di stato energetico, di grado di attivazione che, in fin dei conti, determina la reattività di una sostanza più che la sua composizione. Per avere un’idea chiara di queste tre caratteristiche, prendiamo come esempio un essere umano:
1. Esso può nascere con dei capelli neri, degli occhi bruni, essere di sesso maschile (tutto questo è il suo dharma, cose che ha ereditato dal passato e che non può cambiare);
2. Esso non è lo stesso a trent’anni e a otto anni, che dire quando ne avrà sessanta? (questo è il suo laksana);
3. Se poi prendiamo in considerazione il giorno del suo sessantesimo compleanno, potrebbe essere ammalato o anche sano, sveglio o addormentato (lo stato in cui si troverebbe sarebbe il suo Avasta).
Ho voluto citare quest’aforisma dello Yoga Sutra innanzitutto per farvelo conoscere, e poi per commentare il termine dharma. Questa parola viene abitualmente tradotta con “dovere” e peraltro in India soprattutto con “religione”, “insegnamenti di un maestro”, quale il Buddha.
Questo termine deriva dalla radice dhr che vuol dire “mettere insieme”, “assemblare”. Dunque si possono tradurre le tre parole chiave dell’aforisma di Patanjali come la composizione (dharma) della cosa (hutha), la sua evoluzione nel tempo (laksana) e la sua condizione (Avasta).
Così la parola dharma non vuole dire che dobbiamo fare, ma ciò per cui siamo portati a fare – è il senso reale del termine dharma. Citiamo questo brano della Bhagavad Gita (XVIII, 41): “I doveri dei Brahmana, dei Ksatrya, dei Vaisya e dei Sudra sono distribuiti, o Parantapa, secondo gli attributi derivanti dalla natura (loro)”.
È interessante leggere i commentari che Sankaracarya ha fatto su questo versetto: “La sorgente della natura (Svabhava) del Bramino è il guna di sattva; le sorgenti della natura del Kshatriya sono rajas e sattva, l’ultimo essendo subordinato al primo; quelle della natura del Vaisya sono rajas e tamas, l’ultimo essendo subordinato al primo; e quelle della natura del Sudra sono tamas e rajas, l’ultimo essendo subordinato al primo. E infatti, come vediamo, i tratti caratteristici delle loro nature sono, rispettivamente, la serenità, la maestà, l’attività e l’ottusità” (The Bhagavad Gita with the commentary of Sri Sankaracarya, Samata Books, Madras).
È dunque la nostra composizione originaria che stabilirà il nostro comportamento “esteriore” e che determinerà il nostro modo di correggerci. È proprio da questo che provengono i diversi tipi di yoga – karma, bhakti, jnana – dipendenti dal nostro guna predominante.
Il nostro lavoro è reso difficile dal nostro attuale (in questa incarnazione) “carattere”, in quest’incarnazione, perché è costituito da più principi:
1. La nostra natura originaria, il nostro autentico dharma, le proporzioni relative dei tre guna in noi;
2. Quello che abbiamo acquisito durante il susseguirsi delle nostre incarnazioni; questi ottenimenti sono costituiti da almeno due categorie:
a. Le reazioni passeggere, che fanno parte della nostra vita di tutti i giorni e che sono gli effetti delle “tendenze” che abbiamo acquisito nelle nostre vite precedenti;
b. Le “inclinazioni” più profonde, che sono il risultato della ripetizione delle nostre reazioni passeggere nelle vite precedenti e che, finalmente, formano degli “aggregati” solidi, che Patanjali chiama samskara e che, in ragione di una delle caratteristiche della materia, rimangono invariati e rinforzati con le vite successive nelle quali essi sono stati richiamati all’attività e rinforzati dalla ripetizione di reazioni dello stesso tipo; sono delle solidificazioni molto forti, che resistono alla dissoluzione tra le vite e che si conservano nei piani astrale e mentale attendendo il ritorno dell’anima, alla quale sono attirati dalla loro affinità vibratoria, e che costituiscono dunque insieme un nocciolo duro del carattere dell’essere reincarnato.
3. Il patrimonio ereditato dai genitori, tanto sul piano fisico che sugli altri piani della nostra personalità; in questo patrimonio vi è anche l’influenza del gruppo umano nel quale la famiglia vive, la professione dei genitori, l’ambiente religioso ed altri tipi di ambiti.
Dunque, con tutto ciò che lo circonda l’essere che nasce nella sua nuova vita non è praticamente libero nella sua attività vitale. In pratica esso è “predeterminato” in tutti i suoi fatti e gesti, in tutti i suoi pensieri, in tutte le sue reazioni emozionali.
È per questa ragione che la prima raccomandazione è quella di conoscersi. Facile a dirsi ma non a farsi. Soprattutto perché anche su questo punto gioca il sistema educativo. Vi si dice di essere “saggi”. Ma come? Quali sono i criteri? Generalmente sono norme inerenti all’ambiente sociale di appartenenza.
Questa prima pratica è quindi la più difficile. Solitamente vi si raccomanda di osservarvi come se foste un’altra persona e di correggere ciò che non va respingendo ciò che è “negativo” e adottando ciò che è “positivo”. Ci si forma una regola di vita e, di solito, si cerca di metterla in pratica forzatamente.
Desidero ricordare un consiglio che H.P.B. ha dato ad Annie Besant, quando questa si lamentava con lei che nella meditazione non riusciva ad allontanare i pensieri negativi. H.P.B. le disse: “Accoglieteli come degli amici e lasciateli andare”.
Vi chiedo di riflettere su questo consiglio.

Purificazione
Adesso prendiamo in considerazione la seconda tappa: la purificazione.
Innanzi tutto, facciamo una citazione, tratta dalla sesta Lettera dei “Maestri di Saggezza” (Prima serie, Jinarajadasa): “La purificazione personale non è la pratica di un momento né di qualche mese, ma di anni e può prolungarsi anche durante tutta una serie d’esistenze. Più un uomo si decide tardi a vivere la vita superiore, più sarà prolungato il suo noviziato, poiché è obbligato ad annullare gli effetti di numerosi anni consacrati a degli obiettivi diametralmente opposti al suo scopo …”.
Dunque, primo consiglio: pazienza e circospezione. Poiché, se si mette in atto il metodo violento del rifiuto, il più delle volte non si lavora che sulla parte esterna del nostro essere. Poiché il nostro essere, costituito da innumerevoli esseri intelligenti, ha una grande capacità di schermirsi. Il primo modo di difendersi è quello di nascondere i “difetti” e di palesarli come “positivi”.
È necessario soprattutto avere pazienza in quanto i “difetti” hanno vissuto a lungo prima del nostro “risveglio” e hanno dunque acquisito una grande esperienza.
A ogni modo, vi segnalo un punto che vi chiedo di esaminare con attenzione: la purificazione non sta nel “lavare” la materia sporca come si fa sotto un rubinetto, ma nel sostituire quella attualmente implicata nella composizione dell’essere con altra più pura. Per far questo, conviene modificare la sua vibrazione e, per risonanza, la materia di cui il modo vibratorio non corrisponde più alla nuova vibrazione abbandonerà la costituzione e sarà rimpiazzata da sostanza più conforme alla nuova percentuale di vibrazione.
Così la vibrazione non consiste nel depurare  ciò che è impuro, ma nello scambiare ciò che è impuro con ciò che è puro. Non si tratta di rifiuto, ma di un cambiamento del sistema vibratorio, il cui effetto è “normalmente” la trasformazione degli atomi di materia che costituiscono i nostri corpi.
È a questo punto che l’ispirazione ci serve: se il nostro essere interiore aspira ad uno stato più sottile, le molecole grossolane non si trovano più a loro agio e tendono ad abbandonare il nostro organismo. Esse saranno così sostituite da altre molecole che risuonano maggiormente con il nostro nuovo modo di vibrare. Per questa ragione è necessario che quest’ispirazione sia forte, che occupi sempre più costantemente la nostra volontà e così i nostri corpi si purificano da loro stessi. Questo è il metodo armonioso.
Una considerazione per finire: bisogna essere sempre attenti alla nostra motivazione. Si parla troppo spesso del sentiero di perfezione, con in testa il desiderio di diventare perfetti. Vedete lo scoglio egocentrico? Questo è il più grosso impedimento, e non vi sarà mai troppo raccomandato di vigilare affinché questo slancio non sia quello di essere “perfetti”, ma invece di essere in armonia con la vita che evolve, di non più sentirsi separati dai nostri simili e di non più paragonare se stessi con gli altri.
Lo scopo principale – unico – deve essere quello di ottenere corpi maggiormente raffinati, al fine di rispondere sempre più direttamente all’influenza delle nostre guide.
Penso che alcune delle seguenti frasi di Taimni, contenute in Autocultura, vi ispireranno: “… È vero che vi sono certi limiti inerenti alla natura del piano fisico che non si possono superare, ma anche con queste limitazioni è possibile portare il corpo, in quanto strumento dell’anima, ad un grado ben più elevato di efficienza e di perfezione rispetto a quanto non lo sia ora. Ci dicono che in un lontano futuro, quando la materia del piano fisico sarà più evoluta che adesso, disporremo di corpi fisici meglio strutturati per rispondere alle vibrazioni che provengono dai piani superiori e che gli Uomini Perfetti di quel tempo saranno capaci di far scendere nelle loro coscienze fisiche ben di più della loro divinità, di quanto non possano fare ora …”.
Questo è lo scopo del nostro sforzo: possedere dei corpi suscettibili di rispondere all’influsso di vibrazioni provenienti dai piani superiori; questo è il vero senso del termine “perfezionamento”, non per sentirsi “bene”, ma per fare meglio. Quando i nostri veicoli – e non ho che parlato del corpo fisico, ma ciò può essere applicato ovviamente anche agli altri corpi – avranno sviluppato tutte o quasi tutte le loro possibilità, allora la nostra azione si ripercuoterà su tutti i piani e ovunque. Questo è il vero senso della parola arhat dei Buddisti, il perfetto. Perfetto, non per essere adorato, ma per fare tutto, ovunque e per tutti.
Dopo aver ben stabilito questo fondamento essenziale, prendiamo in considerazione i dettagli.

Qualificazioni
Il seguente passaggio del Vivekacudamani, ci spiega bene questo punto.
18. A questo proposito i saggi hanno parlato di quattro condizioni preliminari. L’esperienza del reale è possibile soltanto quando esse esistono ed è impossibile in loro assenza.
19. In primo luogo è menzionato il discernimento tra l’eterno e il transitorio. Poi viene il distacco dal godimento da ogni frutto (dell’azione), sia in questo mondo che in altri. Poi, ovviamente vi è la padronanza delle sei qualità, cominciando da sama per finire con il desiderio di liberazione.
20. È ben spiegato come la convinzione risoluta che Brahma è la realtà e che il mondo fenomenico non ha sostanzialità viene chiamata: discernimento tra l’eterno e il transitorio.
21. Vairagya è il distacco dalle cose viste, ascoltate ecc. ecc., dagli oggetti transitori che vanno da quelli corporali a quelli corrispondenti allo stato di Brahma.
22. Il distacco del mentale dai molteplici piaceri dei sensi, dovuto al fatto di percepire costantemente il loro carattere pernicioso (vacuo, n.d.t.) e la continua attenzione sulla meta è detto essere sama (quiete).
23. La ripetizione delle due specie di organi (sensoriali, n.d.t.) nei loro rispettivi ambiti, dopo averli ritratti dagli oggetti dei sensi, è chiamato dama (controllo). L’uparati effettivo (il raccoglimento perfetto, n.d.t.) è la non dipendenza, del mentale, da nessuna cosa esterna.
24. Il sopportare tutte le afflizioni senza ansia o lamento, si dice essere titiksa.
25. L’aderenza fiduciosa alla verità esposta nelle scritture e nelle parole del guru, i saggi la chiamano sraddha; con essa si perviene alla conoscenza del Reale.
26. Samadhana è la costante fissazione dei buddhi sul puro Brahman, senza cedere alle inclinazioni del mentale.
27. Mumuksuta è il desiderio di liberare il mentale dai legami, da ahamkara fino ai corpi creati dall’ignoranza (ajnana), per mezzo della conoscenza della sua propria natura.

Il sentiero
Vediamo succintamente le iniziazioni:
1°- Parivrajaka secondo Sri Sankaracarya, colui che non ha più dimora fissa.
Srotapatti secondo il Buddismo, colui che è entrato nella corrente.
2°- Kuttcaka secondo Sri Sankaracarya, colui che costruisce una capanna.
Nel Buddismo: sakridagamin, colui che riceve ancora una vita.
3°- Hamsa secondo Sri Sankaracarya, colui che realizza l’unità con il Supremo.
Anagamin nel Buddismo, colui che non si reincarna più.
4°- Paramahamsa secondo Sri Sankaracarya.
Arhat secondo il Buddismo, il perfetto.
5°- Aseka.
Vedere anche La Voce del Silenzio (Le Sette Porte).
Il termine jivanmukta, colui che è “liberato da vivente”.

Il lavoro del discepolo
Vediamo adesso alcuni dettagli concernenti le iniziazioni e le prove: “… durante questo tirocinio, che inizia con la prima iniziazione e finisce con la seconda, vi sono tre cose differenti di cui un uomo deve sbarazzarsi assolutamente, prima di poter passare attraverso la seconda porta. La prima di queste cose è l’illusione della personalità. Essa deve essere distrutta; non basta più dominarla, mitigarla, rispettarla, bisogna distruggerla, ammazzarla per sempre. L’illusione di un personale distinto deve sparire. È necessario che il chela riconosca che è uno con gli altri, poiché il Sé di tutti è unico. Deve rendersi conto che tutto ciò che lo circonda è uno, l’uomo e l’animale, come anche il mondo vegetale, le forme minerali ed elementari della vita”.
Seconda cosa: il dubbio; terza cosa: superstizione.
Possiamo, d’altro canto, leggere nella Luce sul Sentiero la seguente appendice intitolata “Karma”: “Considera con me l’esistenza individuale come una corda tesa e che non può essere spezzata. Questa corda è formata da innumerevoli tenui fili che, disposti strettamente, insieme formano il suo spessore. Questi fili sono incolori e sono perfettamente diritti, resistenti e lisci. Questa corda, passando come fa per ogni dove, è soggetta a strani accidenti. Molto spesso un filo è preso e rimane attaccato o forse solo violentemente strappato dalla sua retta via. Per lungo tempo allora è scompigliato e scompiglia il tutto. Talvolta viene buttato ad immondezza o macchiato da colore e non solo la macchia si propaga oltre il punto contaminato, ma si comunica anche ad altri fili. E rammentati che i fili sono viventi – sono come fili elettrici; anzi sono di più, essi sono simili a nervi vibranti. Fin dove, allora, possono propagarsi la macchia e il garbuglio! Ma avviene dopotutto che questi lunghi capi di fili viventi, che nella loro ininterrotta continuità formano l’individuo, passano dall’ombra allo splendore. Allora i fili non sono più incolori, ma d’oro; ancora una volta stanno insieme, accomunati. Ancora una volta l’armonia è stabilita tra loro e da quell’armonia interna è percepita la più grandiosa armonia.
Questa immagine presenta solo una piccola porzione, una singola parte della verità: meno che un frammento. Ciò nonostante, soffermati su di essa perché con il suo aiuto potrai arrivare a percepire di più. Ciò che è necessario capire in principio è che il futuro non è arbitrariamente formato da alcuno degli atti isolati del presente, ma che il complesso futuro è in non interrotta continuità col presente, come il presente con il passato. Su di un piano e da un punto di vista, l’immagine della corda è esatta …”.

Relazione Maestro-Discepolo
Quando il discepolo è sufficientemente pronto, il Maestro gli dà una “frustata”. Non solo, esso assolve alla funzione di “mezzo”, come viene indicato dal seguente versetto:
II.6 Gurur upayah; il mezzo per raggiungerlo può essere insegnato da un Maestro.
Ma può fare qualcosa di meraviglioso:
II.7 Matrka-cakra-sambodhah; è la corretta comprensione del funzionamento delle combinazioni (di suoni).
Questa frase suppone che il Maestro unisca la sua coscienza con quella del discepolo (sam-) in modo che quest’ultimo possa scoprire (bodha) la ruota della combinazione dei suoni (Matrka-cakra). La traduzione di Taimni ci spiega, per giunta e nel contempo, questo processo: “L’Istruttore spirituale inizia il discepolo unendo alla coscienza di quest’ultimo la sua e conferendogli la conoscenza diretta del Matrka-cakra attraverso la quale il potere del suono scende nella manifestazione”.
Detto in altro modo, gli fa comprendere il processo della creazione, vale a dire il manifestarsi dell’illusione. È grazie a questa conoscenza che potrà fare ciò che è indicato nei versetti che citerò alla fine di questo studio.

La Vita del Discepolo
Vediamo adesso alcuni aspetti pratici inerenti a ciò che il discepolo deve fare durante la vita di ogni giorno.
Ricordiamo che il discepolo è colui che, consciamente o inconsciamente, ha avuto un “risveglio”, la cui influenza lo guida costantemente.
Una delle cose fondamentali che deve comprendere è la legge del Karma.
Si parla un po’ troppo di questa nozione e pensiamo alle prove e alle sofferenze che ci creiamo di vita in vita, mentre nella realtà non è assolutamente questo l’aspetto essenziale di questa legge.
Karma è azione. Nel nostro mondo manifestato vi è sempre dualità e perciò ad un’azione corrisponde sempre una conseguenza. Quando gettate una pietra in un lago, si creerà una serie di onde che si propagano dal punto d’impatto. Nulla può impedire la creazione di questo sistema di onde. È una legge normale, naturale.
Desidererei ora farvi comprendere un aspetto importante di questa legge. Supponete che la superfice del lago sia grande: le onde si propagano e poco a poco si dileguano. Ma essendovi una riva, le onde la colpiscono e vengono rivolte indietro. Si formano onde inverse che costituiscono, con il sistema iniziale, ciò che in fisica viene chiamato un sistema d’interferenza.
Desidero anche citare un termine, tratto dagli Yoga Sutra, che molto spesso viene trascurato: Krama (III,53-IV,32). Questa parola significa “successione”. Riprendiamo l’immagine delle onde che, dal punto d’impatto della pietra, si propagano. Supponiamo inoltre di vedere una foglia che galleggia sull’acqua, seguendo il movimento delle onde, e constateremo che esse non sono assolutamente “perturbate” da questo moto. Mentre, se vi è un riflusso di onde, avremo o un aumento del movimento, a causa della concordanza delle onde, oppure un sistema perturbato, nel caso in cui le due fasi opposte delle stesse si contrappongano. La foglia in quest’ultimo caso subisce il karma. Nel primo caso è semplicemente il proseguimento del movimento o krama.
Il krama è ciò che il Mahatma Gandhi traduceva con il termine a-himsa, non violenza; preferisco però la parola krama perché esprime l’armonia invece dell’annullamento di un conflitto rappresentato dall’espressione a-himsa.
Se leggiamo bene gli Yogasutra, è questo krama che lo yogi cerca di conseguire. “ Le azioni dello yogi non sono né bianche né nere; ma nel caso degli altri sono di tre specie” (IV,7). Né bianco né nero, senza colore, ecco il vero significato del termine vairagya, che viene generalmente tradotto con “distacco”; è lo stato “senza-colore”, “senza-reazione”. Il termine “equanimità” rende di fatto meglio il suo autentico senso.
Vi raccomando pure quest’aforisma (IV,3): “La causa accidentale non mette in azione nessuna proprietà della materia; semplicemente rimuove gli ostacoli (al flusso), come fa il contadino (che irriga un campo)”.
Desidero darvi un’indicazione in modo che possiate comprendere ciò che Patanjali vuole dire: quando il contadino apre una chiusa che trattiene l’acqua in un serbatoio, l’acqua scorre naturalmente e irrora i campi senza che intervenga nient’altro.
Sfortunatamente ci vuole molto tempo per arrivare a questo punto di “non-azione”. Nella Luce sul Sentiero troviamo scritto: “… È detto che anche un poco di attenzione all’occultismo produce grandi risultati karmici. Ciò avviene perché non è possibile dare la benché minima attenzione all’occultismo senza fare una scelta definitiva tra quello che viene chiamato comunemente il bene ed il male … E l’incedere d’un passo, sull’uno o sull’altro dei due sentieri – già solo questo – produce un gran risultato karmico ... Una volta che la soglia della Conoscenza è raggiunta, la confusione comincia a scemare e quindi i risultati karmici aumentano grandemente, poiché tutti agiscono nella medesima direzione su tutti i diversi piani …”.
È per questa ragione che prima di essere nello stato di non-azione, ciò che un grande amico chiamò akarma karma, il discepolo deve vigilare a non provocare conseguenze karmiche che diventano sempre più grandi nella misura in cui le sue capacità aumentano. Per questa ragione si raccomanda, a colui che è entrato nel sentiero, di prestare molta attenzione a tutte le sue azioni, su ogni piano della sua via.
A proposito dell’azione, posso suggerire un modo di fare: osservare.
Sempre nella Luce sul Sentiero troviamo, a questo proposito, sette versetti:
9. Osserva con attenzione tutta la vita che ti circonda.
10. Impara a guardare intelligentemente nei cuori degli uomini.
11. Osserva con somma attenzione il tuo cuore.
12. Poiché il tuo cuore è la vita da cui sorgerà l’unica luce che può illuminare la vita e renderla chiara agli occhi tuoi.
15. Chiedi alla terra, all’aria e all’acqua i segreti che racchiudono per te.
17. Chiedi al tuo più profondo essere, all’Unico, il segreto finale che conserva per te attraverso le età.
Quando, dopo secoli di lotte e di numerose vittorie, avrai vinto l’ultima battaglia e chiesto il segreto finale, allora sarai pronto ad andare più avanti. Nel momento in cui il segreto finale di questa grande lezione sarà stato rivelato, è in lui che si scoprirà il mistero del nuovo Sentiero – la vita che conduce al di là di ogni esperienza umana e che è completamente al di sopra di ogni percezione o di qualsivoglia immaginazione umana. In ognuna di queste fasi è necessario fermarsi lungamente e riflettere attentamente. A ognuna di queste tappe è necessario assicurarsi che la vita è stata scelta per se stessa. Fai attenzione. La vita deve essere cercata per se stessa e non in relazione ai tuoi piedi che la percorreranno.
Un ultimo consiglio, che peraltro si trova alla fine del capitolo sul Karma: “… Perciò tu che desideri comprendere le leggi del Karma, tenta prima di liberarti da quelle leggi; questo può essere fatto fissando la tua attenzione su ciò che da tali leggi non è tocco”.
1. Sta in disparte nella veniente battaglia e benché tu combatta non essere tu il guerriero (sempre tratto dalla Luce sul Sentiero, n.d.t.).
Citiamo pure quest’aforisma della Bhagavad Gita: “O Partha, per Me non rimane più nulla da fare nei tre mondi, né vi è cosa da conseguire che non sia stata conseguita; pure Io mi adopero nell’azione”.

Conclusione
Concludo offrendovi quest’aforisma contenuto nel Vivekacudamani:
Non esiste né restrizione, né nascita, né schiavitù, né un adepto (per aiutare il discepolo), né colui che cerca la liberazione, né un liberato: questa è la suprema verità” (Vivekacudamani, 574).

tratto dalla “Rivista Italiana di Teosofia” ANNO LXII N. 6, GIUGNO 2006

tradotto da: Gabriella Lepore, Graziano Caucig, Grigitte Grossmann e Renato De Grandis.

Il prof. Phan-Chon-Ton, vietnamita di nascita e francese di adozione, è un eminente scienziato ed è stato a lungo docente universitario di Biologia in Francia e Canada. Già Segretario Generale della Sezione Francese della Società Teosofica è conferenziere internazionale ed autore di numerosi testi ed articoli.

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