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377. Lo Zohar (Introduzione) a cura di Elio e Ariel Toaff

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Presentiamo, di seguito, alcuni estratti dall’Introduzione al libro “Zohar Il libro dello splendore” a cura di Elio e Ariel Toaff, Edizioni Studio Tesi.

*****

Zohar
Il Libro dello splendore

 

Introduzione

Anche per l’ebraismo il fenomeno mistico si pone come la ricerca di un’esperienza viva e personale di comunione con Dio, da conquistarsi attraverso l’estasi o la visione. Il problema fondamentale che la Cabbalà si pone è quindi quello di realizzare la “scoperta” di Dio e di individuare la via che porta a lui.
Nella mistica dell’ebraismo i valori basilari ed i principi caratteristici della religione sono considerati essenzialmente come valori mistici. Per il cabalista risalire al Dio vivente della Bibbia, ricercarlo, possederlo, costituisce però soltanto una tappa di un più lungo tragitto che conduce all’intuizione della presenza del Deus absconditus (l’En Soph dello Zohar, di cui parleremo più avanti), segreto ed inaccessibile, radice e motore di tutto. Il mistico percorre la via che conduce a Dio, attraverso la scoperta dei suoi attributi e delle sue manifestazioni, che teorizza nella celebre dottrina delle sephiroth, le sfere celesti, tipica di tutte le forme della Cabbalà. La Torà, la legge divina, appare al cabalista non tanto come l’espressione della rivelazione storica di Dio al popolo ebraico, ma piuttosto come la stessa realtà divina, vivente e diversa in ogni momento. Le frasi, le parole, le stesse lettere del testo sono per il mistico le scintille della divina sapienza, le sue manifestazioni esteriori, i suoi simboli che racchiudono la profondità della legge cosmica dei vari mondi.
Elia Benamozegh, il noto cabalista italiano, vissuto a Livorno il secolo scorso, affermava in una sua celebre pagina: “Per me la Torà è il tipo del mondo, è il mondo nella mente di Dio, è il verbo incarnato nei precetti (mizwoth ha-ma ‘asiyoth)”.
Chi pertanto desideri giungere alla comprensione del significato del racconto biblico, eviti di ricercarlo negli scritti cabalistici. Non così chi voglia rendersi conto di un’esperienza, tanto originale quanto intensa e personale, della presenza divina. Un’esperienza vissuta nella parola della Bibbia, alla ricerca del “gusto” della dolcezza di Dio, secondo la poetica immagine dei Salmi (XXXIV, 9).
Il termine Cabbalà significa in ebraico “tradizione”. Assai acutamente lo Scholem ha notato il carattere paradossale, che si basa sulla ricerca tutta particolare e personale dell’incontro mistico con Dio, essere intesa come conoscenza da tramandare? Perché dunque la Cabbalà si sarebbe scelta un nome in palese contraddizione con la propria essenza?
In realtà per il mistico ebreo il proprio sapere non deve assolutamente rimanere circoscritto a poche persone, ma va proposto paradigmaticamente a cerchie sempre più ampie.
L’esigenza che le teorie cabalistiche siano tramandate non comporta però implicitamente che i mezzi di trasmissione siano quelli classici, come i libri e la parola. La Cabbalà infatti viene intesa come una dottrina segreta non soltanto quanto all’oggetto della sua ricerca mistica, ma anche per ciò che concerne i metodi con cui deve essere tramandata. Comunque è da ritenere che nella scelta del nome Cabbalà, attribuito ad un importante complesso di teorie mistiche ebraiche, non sia rimasto estraneo l’alto senso della tradizione che tutte le correnti del giudaismo storico hanno sempre dimostrato ed evidenziato nelle opere da loro espresse.

 

La preghiera

Una delle strade più importanti che il cabalista percorre per risalire a Dio è quella della preghiera. Le classiche invocazioni rituali della comunità, insieme alle molte nuove preghiere che il mistico compone perché il suo traboccante sentimento trovi qualche forma di espressione, divengono simboli della vita cosmica. Il cabalista le affronta immergendosi in uno stato di profonda concentrazione mistica (kawwanà), che il requisito perché la liturgia, superati i suoi schemi fissi, acquisti quel pathos e quella tensione spirituale, che possono condurre all’incontro estatico con il primo essere.
La preghiera quindi, nel pensiero della Cabbalà, assume la funzione particolare di meditazione mistica ed ha un ruolo di grande solennità. Ciò non toglie che essa appaia non di rado legata a precise tecniche ed azioni mistiche, alle quali si fa ampio riferimento in più di un testo cabalistico e che talvolta paiono sconfinare nella magia vera e propria.

 

Origini della Cabbalà

Con il termine cabbalà non si designa propriamente che una particolare tappa storica del misticismo ebraico, anche se indubbiamente la più rilevante, i cui inizi sono da collocarsi nel XII secolo. Pertanto sarebbe errato tanto attribuire la definizione di Cabbalà alle opere mistiche dell’ebraismo precedente, quanto ritenere che l’esoterismo ebraico inizi con la Cabbalà, identificandosi con essa.
Dal IV all’VIII secolo dell’e.v. viene infatti collocata la redazione letteraria, in seno all’ambiente ebraico palestinese, dei diversi libri dei “Palazzi (Hekhaloth) e del Sepher Yezirà (Il Libro della creazione), in cui si trovano raccolte le speculazioni di origine gnostica dei circoli mistici già da vari secoli operanti in Palestina. L’indirizzo mistico ebbe una vivace fioritura tra la seconda metà dell’XI secolo e gli inizi del XII secolo. Proveniente dalla Palestina e dalle regioni dell’Oriente, passando attraverso la penisola italiana, si diffuse sulle sponde del Reno, dove fu abbracciato da ampie masse di ebrei che, perseguitati e massacrati nel periodo delle crociate, cercarono in esso rifugio e consolazione. Gli aderenti al movimento mistico presero il nome di “pii” (chasidim), ed ebbero personalità di notevole rilievo, tra cui spiccano Eleazar ben Yehudà di Worms e due membri della famiglia Calonymos, di origine italiana: Shemuel e suo figlio Yehudà.
Nel corso del XII secolo il movimento mistico dalle zone renane si propagò alla Provenza, dove fu scritto il celebre Sepher ha-Bahir (Il libro splendente), uno pseudepigrafo attribuito all’antico dottore palestinese Nechunyà ben ha-Qanà. In seguito l’indirizzo mistico fu accolto anche in Spagna, dove le ampie cerchie ebraiche che lo abbracciarono ne intrapresero una profonda trasformazione. L’influsso gnostico orientale, che fino ad allora aveva prevalso, finì col ridursi notevolmente e talvolta col cessare del tutto, lasciando il posto alle nuove correnti aderenti al pensiero neoplatonico. È proprio in seguito a questa trasformazione, realizzatasi nella seconda metà del XII secolo, che sorse il movimento mistico della Cabbalà, con il suo centro nella città di Gerona. Tra le grandi figure di mistici di questo periodo ricordiamo Moshè ben Nachman, celebre commentatore della Bibbia, Abraham di Colonia, Abraham Abulafia di Saragozza e Yoseph ibn Chiquitilla.

 

Lo Zohar

Il testo classico della Cabbalà è lo Zohar, il “libro dello splendore”, per secoli considerato sacro all’ebraismo ed ancor oggi venerato nei circoli mistici, al pari della Bibbia e del Talmud. Attribuito dai cabalisti a Rabbì Shim’on bar Yochai, celebre dottore della Mishnà, è ambientato nella Palestina della seconda metà del secondo secolo dell’era volgare. I protagonisti del libro sono lo stesso Shim’on, suo figlio El’azar ed un gruppo di amici e di scolari, che dissertano sul problema dell’uomo e di Dio, patendo dall’interpretazione mistica dei versetti della Bibbia. il discorso che ne scaturisce non è organico, ma si sviluppa in maniera sistematica, risolvendosi in una molteplicità di omelie dai temi più disparati e spesso prolisse. Le intuizioni emergono quindi con diversa intensità, accavallandosi, ripetendosi e congiungendosi in mille combinazioni differenti. Il quadro che si apre ai nostri occhi è profondamente suggestivo. L’aramaico, la lingua in cui il testo è scritto a richiamare la parlata delle genti di Palestina dei primi secoli della nostra era, ne accresce il vigore e la solennità.
Quanto alla data di composizione dello Zohar, i cabalisti ne sostengono calorosamente l’antichità, riportandolo all’epoca di Rabbì Shim’on bar Yochai. Molti studiosi invece, pur ammettendo che nel testo siano state incorporate tradizioni assai antiche, risalenti anche a quel periodo, sono portati a ritenere che gli elementi principali dello Zohar vadano collocati in epoca più recente. Altri critici, ed in primo luogo lo Sholem e la sua scuola, che hanno fornito un eccezionale contributo allo studio del misticismo ebraico, negano risolutamente che in esso si possano comunque ravvisare delle tradizioni tanto antiche da risalire al periodo di Shim’on bar Yochai, e ne stabiliscono la data di composizione, almeno per quanto concerne il nucleo principale del libro, alla fine del XIII secolo. L’autore sarebbe da identificarsi con Moshè de Leon di Valladolid, esponente della Cabbalà spagnola, nel cui ambito si ritrovano molte delle teorie mistiche di cui lo Zohar si fa autorevole portavoce ed entusiasta sostenitore.

 

La sua struttura

La dottrina dello Zohar: Dio

Le sfere celesti

La creazione

Il peccato originale

I doveri del giusto

 

Il problema del male

Uno dei principali argomenti affrontati dallo Zohar è l’origine e la natura del male. Inizialmente sembra che la Cabbalà lo affronti legandolo direttamente al peccato dell’uomo. Adamo, avendo spezzato l’unità delle sephiroth, cogliendo il frutto dell’albero della vita, separò automaticamente il mondo celeste da quello terreno e fece nascere il male. Secondo questa teoria, l’interruzione del perenne flusso divino dalle sephiroth al mondo, provocato dal peccato dell’uomo, avrebbe fatto sorgere il male. In pratica quindi il male sarebbe legato all’azione morale dell’uomo e non ne esisterebbe indipendentemente.
Parzialmente in contrasto con questa tesi, compare nello Zohar anche l’idea di un male metafisico, la fonte oscura del dolore nel mondo, del tutto distinto dal male morale. Per lo Zohar l’origine del male metafisico si ritrova in Dio stesso, nelle sue sephiroth. Abbiamo già detto come le sfere divine non possano mai essere separate l’una dall’altra, perché in esse scorre il flusso di Dio che altrimenti ne verrebbe interrotto.
Adamo con il suo peccato provocò tale separazione, facendo nascere il male morale. D’altra parte le sephiroth rappresentano il grado più alto di santità, di bontà, di armonia divina solo quando sono unite, nel loro complesso. Prese una per una, interrotto il loro rapporto con le altre, non rimangono più tali. La sfera della giustizia divina (din) è buona e santa, quando viene temperata dalle altre sephiroth vicine: l’amore (chesed) e la pietà (rachamim). In esse il fuoco della collera divina, che divampando minaccia di travolgere ogni cosa, viene mitigato ed addolcito dalla benevolenza e dalla misericordia. Ma, presa a se stante, quando venga separata dalle sephiroth che la precedono e la seguono temperandola, la giustizia divina, la sua ira e severità, esplodono distruggendo ogni ostacolo e si allontanano dal mondo di Dio, trasformandosi nel male metafisico. Questo è definito dallo Zohar come la realtà diabolica opposta alla realtà divina.
Nel Midrash Bereshit Rabbà (LXVIII) Rabbì Abbahu racconta che Dio, prima di creare il mondo in cui viviamo, creò altri mondi che poi distrusse perché non gli piacevano. Interpretando misticamente questo sconcertante insegnamento, lo Zohar sottolinea che quei mondi furono distrutti perché in quel caso operò soltanto la sephirà della giustizia divina (din), con la sua severità ed il suo inconciliabile rigore. Quei mondi non poterono sussistere perché la giustizia di Dio si trovò ad agire, senza essere temperata dalle sephiroth dell’amore e della compassione. L’ira divina che li produsse li cancellò dopo che divennero il male.
Quale processo provoca la separazione della sephirà della giustizia dalle altre, facendo sorgere il male metafisico? Lo Zohar oscilla tra due diverse risposte. La prima è che l’azione dell’uomo, il peccato di Adamo, provoca la nascita del male metafisico insieme a quella del male morale, distruggendo il legame tra le sephiroth. La seconda invece fa scaturire il male metafisico necessariamente dal processo con cui l’En Soph si travasa nelle sephiroth. Il meccanismo del flusso divino si interromperebbe talvolta per eliminare le scorie, i detriti (le “corteccie”, qelippoth, nel linguaggio cabbalistico), e queste precipiterebbero nel mondo, divenendo il male. In questo senso il male metafisico sarebbe in Dio e sorgerebbe nel corso del processo di erudizione dell’En Soph nel mondo, attraverso le sephiroth.
Anche in questa seconda risposta, che appare in contrasto abbastanza netto con la prima, lo Zohar tuttavia sottolinea che il male “espulso” da Dio nel suo processo vitale è cosa morta e che solo il peccato dell’uomo può conferirgli la vita. Questa precisazione però può essere considerata come il tentativo di conciliare formalmente due tesi sostanzialmente inconciliabili.

 

La natura dell’anima

Uno dei problemi centrali nello Zohar è la definizione della natura dell’anima …

 

Conclusione

Le idee dello Zohar hanno esercitato un’enorme influenza sull’ebraismo successivo e sono state considerate tra le espressioni più significative della mistica giudaica.
… la mistica così ha saputo custodire il Dio vivente e trasmetterlo alle generazioni successive. Se anche la sua influenza nell’ebraismo si fosse limitata a questo, costituirebbe già un contributo di valore inestimabile.

tratto da “Zohar Il libro dello splendore” a cura di Elio e Ariel Toaff, Edizioni Studio Tesi.

 

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