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447. Gli esploratori della morte di Gianni De Martino

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Nel corso di questi ultimi anni è, sorto, soprattutto negli U.S.A., un vasto movimento clinico di riscoperta dell’agonia, e della morte. Psichiatri, cardiologi, biologi e fisici, in sofisticati laboratori, interrogano quelli che hanno sfiorato la morte, collezionano i loro racconti, esaminano le loro testimonianze, confrontano le loro esperienze.
Al seguito dei lavori di R. A. Moody, S. Grofe, più recentemente di P. Dayot in Francia, si scopre che la morte nasconderebbe una chiarezza di abbagliante bellezza, determinando così nuovi interrogativi sulla vita, la conoscenza, la memoria …
Patrice Van Eersel, un giornalista francese autore di un’inchiesta sulla riscoperta della morte, parla addirittura di una “accelerazione del processo umano”, di “un viaggio nella luce” intesa come fonte dei processi psichici e intenzionali dell’uomo. I miti, così come anche gli antichi racconti visionari delle luci del Paradiso e delle fiamme degli Inferni, sembrano tornare di attualità. Quando tutte le facoltà del livello fisico e psicologico sembrano paralizzate, è come se venisse attivato un livello più profondo: quello in cui sono conservate le nostre impressioni interiori.
Tutte le scuole tradizionali, sia in Oriente che in Occidente, descrivono itinerari simbolici vicini a ciò che la medicina moderna scopre con il nome di Near Death Experiences (N.D.E.), o Esperienze della Morte Imminente (E.M.I.) come proponiamo di chiamarle, in italiano.
Ma cosa s’intende per Esperienze della Morte Imminente? Si tratta di esperienze soggettive riportate da individui che si sono avvicinati alla morte, e comprendono: le allucinazioni, di morenti qualche ora o qualche minuto prima del trapasso; le esperienze fatte da soggetti durante un incidente, tra la presa di coscienza dell’imminenza della morte e l’incidente stesso; le esperienze di soggetti in stato di morte apparente, vale a dire durante la scomparsa momentanea dei criteri superficiali della vita: respirazione, battito cardiaco, tensione arteriosa. Le testimonianze raccolte ripropongono quasi automaticamente le stesse parole per descrivere le diverse esperienze vissute in situazione estrema di morte imminente. Il soggetto pretende, ad esempio, di essere andato “al di là di me stesso”, in un “mondo meraviglioso” connotato da fenomeni fotici (luci iperluminose, colori abbaglianti), fondamentalmente “ineffabile”, “inesprimibile”, in cui l’immagine dell’Io si è dissolta, mentre la coscienza vigile s’intensificava. Da allora, il soggetto in questione dice di sapere che “la morte non è che un passaggio” e che “non fa più paura”.
Volendo sintetizzare le fasi di una E.M.I. completa e tipica, avremo, in successione, il seguente quadro: memoria panoramica (accelerazione dei pensieri); sensazione di essere morto; pace, gioia; uscita dal corpo (O.B.E., Out Body Experience); modificazione della percezione del tempo e dello spazio (percezione di un tunnel oscuro); rumori non abituali; sentimento d’armonia con l’universo; sentimenti di comprensione d’ogni cosa; vivacità sensoriale; facoltà “paranormali” (E.S.P., Extra Sensory Perceeption); mondo extraterrestre; incontro con parenti defunti; incontro con figure religiose; visione di esseri di luce, presenza ineffabile; entrata nella luce; ritorno; esperienze sgradevoli.
Dal punto di vista dell’approccio psicoanalitico, si parlerà di elaborazione inconscia secondo modelli di spiegazione basilari. Si tratta del rifiuto della morte, dell’oscura realtà. Memoria panoramica o esperienza trascendente sarebbero la produzione di fantasmi da shock, così come anche di fantasmi di onnipotenza – mobilitati soprattutto nell’esperienza dell’uscita dal corpo – nel senso che permettono di “padroneggiare la morte”. Si parlerà anche di regressione (Freud), a uno stadio arcaico anteriore alla differenziazione dell’Io. Alcune fasi delle E.M.I. potrebbero spiegarsi o con una regressione allo stadio di un presunto benessere intra-uterino, o con una perdita dei limiti dell’Io nello stadio simbiotico. Sicché l’incomunicabilità potrebbe essere una regressione a un livello arcaico pre-natale.
Qui ci limiteremo ad osservare semplicemente che “arché” in greco significa “principio”, per cui potremmo intendere un ritorno al principio di ogni manifestazione, ovvero alla realtà psichica che resta la condizione senza la quale non si hanno rappresentazioni, e di cui conosciamo ancora molto poco.
Le esperienze definibili come E.M.I. sono, inoltre, come ogni umana esperienza, anche esperienza simbolica. Nel caso specifico si tratta di attraversamenti simbolici, che implicano l’attivazione di particolari stati di conoscenza. Questi non sono necessariamente inferiori o patologici, ma potrebbero rientrare in quegli stati di coscienza modificati definibili come A.S.C. (Altered States oj Consciousness, prossimi sia agli stati d’intuizione mistica che a quelli indotti in taluni soggetti, da sostanze quali la psilocibina, il peyote, l’Lsd. Non è da escludere, peraltro che lo stress di un organismo in pericolo di vita provochi – proprio come durante lo stress della nascita – una “ondata” di specifici ormoni nell’organismo, il cui effetto potrebbe essere simile a quello delle sostanze dette psicotropi che o allucinogeni.
Senza voler ridurre le esperienze E.M.I. a “niente altro che” il fisiologo o lo psicologico, va notato che sin dalla notte dei tempi gli uomini sanno di poter ricavare enormi benefici dal vivere la propria morte (o conoscere la piccola morte), per poi rinascere simbolicamente.
Tutte le grandi iniziazioni sono, non a caso, modellate sul processo della morte. E tutte danno accesso a un tipo di “conoscenza” (gnosi) non accessibile che a un tipo di coscienza diversa da quella (dualistica, o meramente speculativa e intellettuale) di cui godiamo  ordinariamente. Sarà quindi utile conoscere i diversi aspetti che la coscienza assume durante il processo della morte.

Il Bardo Thodrol
La vita cosciente appare come un tentativo – ogni volta ripetuto quasi automaticamente – di stabilità strutturale metaforica. L’arrivo della morte (così come anche il trapasso da uno stato di coscienza all’altro) segna una fine della stabilità metaforica su cui il senso dell’individualità e la percezione di un Io lineare e continuo, irrelato e vividamente esistente come entità forte e stabile. La dissoluzione dell’identità appare catastrofica solo dal punto di vista ristretto dell’Io. La si può infatti vedere anche come una proposta di transizione di stato, come una occasione di oltrepassare il programma vivente di unicizzazione, di cui il corpo costituisce il luogo e l’istante.
Porsi in stato di disponibilità alla questione, e cioè in stato di conoscenza attuale, significa abbandonare il “problema”della morte. Dissociarsi dalla percezione di un Io inteso come entità stabile e fissa, così come dissociarsi dal corpo, non è un negare la morte. È negare l’identificazione “del tutto” di un uomo con l’Io, o con il corpo: dunque morire all’Io e al corpo, passo singolare e straordinariamente intenso che è anche accettare la morte.
Secondo l’insegnamento tradizionale – catena che lega tutti gli spiriti sensibili e riflessivi alle civiltà del passato e alla loro conoscenza delle forze occulte dell’anima umana – la morte è una porta attraverso cui passa in un tipo diverso di esistenza. Morire significa transire, verbo latino in cui risuona l’idea del passare. La morte è un transito, con un termine ecclesiastico; o anche trapasso, movimento attraverso cui la vita va al di là. Tutti questi termini indicano che la morte non è un perire e suggeriscono l’idea di un cambiamento di stato: la transizione, il passaggio da uno stato all’altro, ovvero il morire, che, con la nascita, è il passaggio essenziale nella vita umana. Morire significa quindi essere in transito.
Questa misteriosa esperienza limite concerne, nella sua incomparabile singolarità, il “vissuto” del morente. È quindi esperienza individuale di dissoluzione dell’individualità. Una tale esperienza non può essere affrontata da un punto di vista esterno ed obiettivo. Non volendo qui sostituire al pregiudizio materialista ordinario un qualsiasi pregiudizio spiritualista, il nostro lavoro consisterà nell’esposizione del processo della morte secondo l’insegnamento tradizionale.
Esamineremo soprattutto l’approccio del Buddhismo tibetano, perché offre il vantaggio di essere un approccio eminentemente “pratico” e non speculativo. Attingeremo a una tradizione sulla morte che contiene un impressionante corpus di pratiche volte a trasformare l’esperienza del morire in una occasione di liberazione. In Tibet, una voluminosa letteratura (fra cui il celebre Bardo Thodrof) tratta della liberazione che deriva dall’ascolto della Dottrina mentre ci si trova in transito, nello stadio intermedio. Il Bardo (letteralmente, “Tra-due”) non è solo il trapasso tra la vita e la morte, e tra morte e ri-nascita, ma ogni istante della vita della coscienza, colta al passaggio tra un pensiero e l’altro. Si tratta di una conoscenza immediata o Saggezza (prajfiii) realizzabile in uno qualsiasi dei punti dell’organizzazione dell’ organizzazione dell’esperienza (samsara), in termini di apertura o vacuità (shuniata). Questi insegnamenti trattano della morte concepita in maniera differente dalla concezione classica occidentale, che intende la morte come un termine , un istante decisivo indivisibile.
Qui la morte è concepita come uno dei punti, o nodi, di un processo circolare che concerne la vita della coscienza e non un fatto esterno, avulso dalla coscienza che struttura l’esperienza.
Il Risveglio è sempre tra un lampo do coscienza e l’altro, ed è prossimo in termini di spazialità, istantaneo in termini di temporalità.
Questa “Dottrina della morte”, che è anche “Dottrina della vita”, è stata tramandata da diversi “yogi” esperti. Il loro insegnamento, ancora vivo nelle diverse scuole del Buddhismo tibetano, sembrano descrivere esperienze molto vicine a quelle che oggi la moderna medicina occidentale scopre con il nome di Near Death Experiences (N.D.E.), o Esperienze della Morte Imminente (E.M.I.).

Il processo della morte in otto stadi

In ambito buddhista-tibetano il processo della morte viene descritto essenzialmente quale modificazione degli stati di coscienza. Esiste una terminologia tecnica altamente differenziata e molto precisa per descrivere il processo con i concetti di “riassorbimento delle coscienze grossolane in quelle più sottili”, e di queste “nella mente primordiale” o arcaica. Questa mente ultima viene indicata in termini di “vacuità”: vuota di forma, di colore, di tangibilità. Realizzare la natura vuota dei fenomeni, ivi compresi dei fenomeni interni, permeati di consapevolezza, coincide con l’illuminazione, conosciuta anche, tecnicamente, come liberazione, o risveglio sublime. Il sottile stato di coscienza che percepisce direttamente la “vacuità” al momento culminante della morte fa sempre parte della nostra corrente di coscienza, benché non venga percepito dalla maggioranza degli esseri, i quali non ne hanno, del resto, che una vaga e debole esperienza al momento della morte.
Nel Buddhismo, sia la morte che la vita hanno la loro fonte nello spazio illuminato della mente, vuoto di dualità. Durante questa vita, la coscienza sottile o saggezza (prajna) che realizza la vacuità (shuniata) può essere riconosciuta e utilizzata da praticanti tantrici avanzati, i quali, attraverso uno yoga specifico, possono realizzare l’assorbimento delle coscienze dualistiche più grossolane o superficiali, attraverso tappe meditative simili alle tappe naturali del processo della morte.
Il processo della morte inizia con l’assorbimento dell’elemento “terra” nell’elemento “acqua”: il morente sperimenta l’incapacità di muovere le membra, sensazione di sprofondare, un rumore simile a un terremoto o a una valanga. Il corpo perde la sua agilità, i muscoli si contraggono, le pupille restano fisse. Interiormente il morente ha delle visioni dette “simili ai miraggi”.
Al secondo stadio, l’elemento “acqua” si dissolve nell’elemento “fuoco”. Interiormente c’è come una nebbia o un fumo che riempie tutto lo spazio.
La terza tappa è caratterizzata dalla dissoluzione dell’elemento “fuoco” nell’elemento “aria”. Tutto lo spazio mentale è pervaso da scintille di luce. Tecnicamente questo stadio è conosciuto come “stadio delle lucciole”.
Durante la quarta tappa la dissoluzione dell’elemento “aria” e il suo riassorbimento nell’elemento “spazio”, fa cessare ogni volere, ogni processo intenzionale. C’è come una piccola luce immobile, simile a quella di una lampada ad olio. Il livello di coscienza è neutro, non c’è né dolore, né piacere. La respirazione cessa.
Il processo descritto simbolicamente in termini di riassorbimento delle coscienze grossolane e degli elementi di sostegno, non implica la loro totale scomparsa. Sono in qualche modo dissolti in una coscienza sempre più sottile e vi dimorano allo stato latente, sotto forma di “impronte”. Più tardi queste si manifesteranno di nuovo gradualmente come coscienza sempre più grossolane, all’inverso del processo di assorbimento. È un tale fenomeno che darà origine al cosiddetto “corpo del Bardo”, o corpo dello stadio intermedio tra morte  e rinascita.
La quinta tappa richiederebbe spiegazioni concernenti ciò che impropriamente viene definita “fisiologia yogica” o “del corpo sottile”. Ci limiteremo, con qualche semplificazione, a segnalare che al momento della morte i nodi di energia (cakra) che durante la vita avevano ostruito il “canale centrale” si sciolgono, lasciando scendere la “forza vitale” (tigh-le) che dimora nel cakra della testa. Questo movimento (rlung) provoca una visione bianca radiante, simile a quella del cielo al plenilunio. È l’”argento” vibratile che caratterizza il mondo “astrale” descritto anche dall’occultismo occidentale. Va precisato che i processi descritti riguardano una dinamica energetica sottile, che non va concretizzata, o concepita in termini di “fisiologia”, giacché si tratta di indici della mortalità in quanto espressione del totale processo vivente.
La sesta tappa è caratterizzata dalla visione di un chiarore rossastro, simile a quello del cielo al tramonto. Viene attribuito alla risalita della forza vitale (tigh-le) che dimora nell’ombelico fino al cakra del cuore.
L’incontro di queste due forze vitali, indicate come tigh-le maschile (bianco) e tigh-le femminile (rosso), provoca una sottile visione, simile a quella di un cielo nero radiante.
L’ottava tappa comporta il distacco del “flusso di coscienza” dal corpo fisico. Questa esperienza è chiamata Luce Chiara della Morte ed è “vacuità”. Paragonata a uno spazio vuoto e brillante , indica che il processo della morte è complicato.
Dopo l’esperienza della luce limpida (che non è un aldilà, ma un tipo di coscienza sempre presente, anche durante la vita, benché non possa essere espressa i termini di spazio o di tempo) l’illuminazione dovrebbe essere stata realizzata. Ove ciò non si realizzi, il flusso di coscienza disincarnato penetra, per così dire, nello stadio intermedio conosciuto come Bardo.
Tra la morte e la rinascita, il flusso di coscienza è sostenuto da energie molto sottili e, sulla base delle impressioni accumulate in seguito ad atti precedenti (karma), viene anche proiettato un Io simile all’io onirico, l’io dei sogni.
Il cosiddetto “essere-del-Bardo”, non più aggravato dalla grossolana griglia dei sensi fisici, è dotato di straordinari poteri di mobilità, chiaroveggenza, attitudini “extrasensoriali”. A seconda dell’inclinazione karmica, si dà luogo a esperienze meravigliose. Ma, secondo l’insegnamento dei veggenti del Tibet, la maggioranza fa esperienze terrificanti e sgradevoli. I dotti Lama paragonano lo stato disincarnato del Bardo a una foglia presa in un uragano, a uno spirito spaventato che non conosce riposo.
È per questo che i Buddhisti recitano preghiere e compiono certi riti per la cura dei morti (tibetano: Je-dzin), per soccorrere le energie sensibili trasmigranti e aiutare tutti gli esseri in difficoltà a trasformare lo spazio dell’ignoranza nella saggezza compassionevole del vuoto radiante.
Questa (con qualche semplificazione) è l’esposizione del processo della morte secondo gli insegnamenti esoterici del Buddhismo tibetano.
Si tratta di un sistema altamente differenziato e di grande complessità, di cui la nostra esposizione non è che un tracciato preliminare, a grandi linee. Il Buddhismo espande il campo della consapevolezza fin dall’interno di quell’esperienza limite che è il morire.
Qui la coscienza subisce, in solitudine, modificazione sul cui significato i moderni esploratori della morte incominciano appena ad affacciarsi, scoprendo le N.D.E. e sottoponendole al vaglio delle più diverse scienze. Con le parole del compianto Lama Tubten Yeshe: “Invece che dolore e confusione, la vita può essere un’esperienza illuminante, la morte può essere un’esperienza illuminante, la rinascita può essere un’esperienza illuminante. La saggezza (prajitii) è l’antidoto all’ansietà, alla depressione, allo stato senza speranza delle emozioni incontrollate”.

“Gli esploratori della morte” di Gianni De Martino
tratto dal Volume 2 – Febbraio 2011 – di “Rebis” (La Vita e la Morte) TecnaEditrice

 

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